martedì 4 marzo 2008

Vanaja: sogno di una bambina

“Vanaja” (regista Rajnesh Dolmapalli) era il film di inaugurazione del nuovo festival del cinema dei giovani di Bologna, lo Youngabout Festival, iniziato ieri (3 marzo 2008).

Avevo visto la pubblicità di questo film più di un anno fa su alcuni siti di internet indiani. La pubblicità aveva un’immagine molto bella e colorata, una ragazza insieme ad un elefante, e diceva che il film aveva vinto riconoscimenti internazionali molto importanti. Durante la mia visita in India avevo cercato il film ma senza successo. Comunque, avevo pensato che la strategia di marketing scelto dal film era buona, e che soltanto tramite la pubblicità online, era riuscita a creare curiosità in persone come me.



Poi quando ho visto il programma del festival Young About, avevo subito deciso che non l’avrei lasciato sfuggire quest’opportunità. Ieri mattina per guardare il film al cinema Odeon c’erano poche persone, a parte tre-quattro classi di scuole medie insieme ai loro insegnanti. Magari il festival attirerà più persone alla sera.

Mentre il film ha delle belle immagini, e un’attrice protagonista molto accattivante, nell’insieme sono rimasto un po’ deluso dal film. L’aspetto più problematico del film è la sua debole sceneggiatura, comunque procediamo in ordine per parlare del film.

Trama: Vanaja è la figlia quindicenne di un pescatore Somayya dell’Andhra Pradesh. La famiglia ha problemi finanziari e il padre di Vanaja deve dei soldi a Ram Babu il postino locale. Il padre di Vanaja le suggerisce di lasciare la scuola e di cercarsi un lavoro. Vanaja vuole lavorare da Ramadevi, la vecchia danzatrice di Kuchipudi e la padrona di una ricca famiglia locale.



Ramadevi accetta di insegnare le antiche arti di danza e musica a Vanaja, e la ragazza si rivela una studentessa brava e attenta. Le prime performance della ragazza sul palcoscenico del villaggio riscuotono molto successo.

Ram Babu il postino è innamorato di Vanaja, ma ciò non lo ferma a portare via la barca del suo padre Somayya, perché quest ultimo è sempre ubriaco e non riesce a rinsaldare il suo debito. Somayya usa i soldi guadagnati dalla figlia per comprarsi da bere.

In tanto il figlio di Ramadevi, Shekhar ritorna dall’America. Vanaja è attratta da lui e un giorno lo vede nudo in bagno. Lui vuole candidarsi alle elezioni locali.

Vanaja pensa ad un piano per vendicarsi di Ram Babu per aver portato via la barca di suo padre, ma mentre cerca di sedurrlo viene scoperta e sgridata per essersi comportata come una ragazza facile. Anche Shekhar, il figlio della padrona la guarda con malizia e resta male quando davanti a tutti, lei fa notare che lui non sa fare bene i conti. Lui cerca vendetta e una sera riesce a violentarla.

A parte una vecchia domestica della padrona, Vanaja non parla con nessuno della violenza subita, ma poi rimane in cinta. La padrona prima sgrida il figlio e poi, le suggerisce di abortire. Vanaja scappa dal padre e poi con aiuto di amici, va a vivere nella foresta nell’attesa della nascita. Vanja sogna in qualche modo di vendicarsi, mentre suo padre pensa di vendere il figlio neonato.



La padrona accetta il bambino, di allevarlo in casa sua, ma non può accettare Vanaja come sposa del suo figlio perché è di una casta bassa. Vanaja torna in casa dalla padrona per poter stare vicino al proprio figlio, ma è sempre piena di rancore e vuole vendetta da Shekhar, il quale vorrebbe trattarla come amante. Quando muore il padre, Vanaja sa che se resterà in quella casa diventerà come la vecchia domestica e decide di andare via.

Commenti: Dal punto di vista visivo, il film è molto bello. Alcune scene hanno una luce meravigliosa. Mamta Bhukya nel ruolo di Vanaja è naturale, vulnerabile e affascinante. Anche Urmila Dammannagari nel ruolo della padrona è credibile. Tutti gli attori del film sono persone prese dai villaggi e non sono attori professionisti. Ciò da certa ruvidezza piacevole al film.

Ma la sceneggiatura del film è molto debole, sembra un film amatoriale fatto per l’occidente pensando ai festival di cinema. Sembra impossibile che il film abbia raccolto così tanti premi internazionali con una storia che è così chiaramente artificiale.

La prima scena del film, il piccolo gruppo di danzatori cantanti che presentano una scena di Mahabharata, è bella perché i danzatori sono vecchi e stonati ma presentano la storia dei cinque fratelli Pandava e la loro sposa Draupadi con molta convinzione. Ma usare questa danza per giustificare la passione di Vanaja (letteralmente il nome significa “figlia della foresta”) per la danza kuchipudi sembra un po’ forzato.

Tra gli attori è Ramchandraih Marikanti nel ruolo di Somayya, il padre di Vanaja, l’unica nota falsa, un po’ troppo melodrammatico.

Ram Babu (Krishna Garlapati) come postino innamorato di Vanaja non sembra una persona che avrà i soldi da prestare agli altri. Comunque lui recita la sua parte con convinzione. Karan Singh, nel ruolo di Shekhar è il bello del film, ma è poco convincente.



Le scene della danza sono molto belle ma sono state riprese da una angolatura diretta senza variazioni e con pochi primi piani, il che può limitare il loro impatto.

La questione delle caste è il punto centrale del film, intorno al quale ruotano diverse scene, ma è trattato nel film in maniera così poco credibile. Nel film, Vanaja, una ragazza di bassa casta può lavorare nella cucina della signora, può toccare il cibo con le proprie mani, può entrare nella sala della preghiera, tutti comportamenti non permessi alle persone delle basse caste.

Inoltre, il bramino, padre della migliore amica di Vanaja, è anche amico del padre di Vanaja e li aiuta a nascondersi nella foresta. Anche questa amicizia tra un bramino e un pescatore di bassa casta non è logica, se non per un uso strumentale nel film.

Né il comportamento della signora di casa dopo la scoperta che il figlio ha violentato la ragazza e la sua decisione di accettare il figlio nato dalla violenza sessuale, sembrano poco credibili. Le discussioni verso la fine del film riguardo al colore scuro del bambino sono altrettanto poco credibili. In India, le basse caste sono spesso caratterizzate da colore della pelle più scura perciò, parlare del colore scuro del bambino poteva avere un senso, ma né Vanaja né suo padre hanno la pelle scura, anzi è la padrona di casa che ha la pelle più scura.

Penso che se le persone hanno una conoscenza superficiale dell’India e hanno sentito parlare del problema delle caste, il film può sembrare autentico e coraggioso perché affrontata diversi temi importanti. Tuttavia, se hai una conoscenza maggiore della cultura indiana, il film sembra artificiale che fa un uso strumentale delle questioni come le caste, oppressione dei poveri, le discriminazioni contro le donne, ecc.

martedì 26 febbraio 2008

Sesso e Preghiera

Avevo sentito parlare molto dell'arte erotica di Khujaraho e Konark, ma non avevo avuto l'opportunità di visitarli. Mentre ero a Bhuvaneshwar, quando mio collega, dott. Mani ha proposto di partire presto alla mattina per poter visitare il tempio di Konark, l'ho accolto con gioia.

La prima vista delle rovine del tempio al dio Sole, costruito intorno al 1250 d.c., avvolto da una leggera nebbia era incredebile.




Come spesse succede, vi erano molti malati di lebbra all'entrata del tempio. Parlai con uno di loro e controllai la sua mano e gli consigliai di farlo operare presso il centro di chirurgia ricostruttiva della lebbra, ma lui non era convinto. Diceva che avere la mano giusta avrebbe influito negativamente sulla sua capacità di raccogliere le offerte dei pellegrini! Gli dissi che aveva perso le dita dell'altra mano, aveva ulcere ai piedi e questi erano sufficienti per la sua professione di mendicante, ma aveva una mano ancora buona e sarebbe stato stato saggio cercare di mantenerla buona. Scosse la testa e mi disse che avrebbe pensato al mio consiglio.







Pellegrini di tutti tipi giravo intorno, la maggior parte di loro sembravano persone provenienti dai villaggi intorno e dalle piccole città del Bengala. Probabilmente si fermavano a Konark sulla strada per il tempio di Jaggan Nath a Puri.














Mentre le bellissime statue nella parte iniziale del tempio sono innocue quelle sulle pareti del tempio principale non lasciano dubbi sulla loro natura sessuale. Intorno all'entrata principale del principale edificio del tempio, vi sono 4 statue erotiche giganti con diversi pannelli più piccoli con scene di sesso intorno ad esse.









Sulle pareti laterali del tempio, le statue sono organizzate in tre livelli separati. Le statue più basse, mostrano scene non erotiche con i vari dei e animali mitici mentre il livello più alto, continene le statue erotiche. Le statue sono molto esplicite. Secondo il dott. Mani, questa organizzazione di statue è stato fatto per proteggere i pellegrini bambini, i quali guardano le scene più innocue.









Le scene di sesso mostrano le diverse variazioni sul tema descritte nei testi di Kamasutra, compreso il sesso orale. Le statue sono molto espressive, quasi tutte con espressioni di gioia e di piacere.

Quasi tutte le statue degli uomini hanno degli organi sessuali enormi gonfiati dall'eccitazione. Probabilmente i pellegrini maschi tornavano a casa con un senso di inferiorità!




Konark non è soltanto erotismo ma è una struttura incredibilmente bella. Sono rimasto affascinato dalle statue del dio sole come quella nell'immagine sotto, seduto su un cavallo.




L'intero tempio è costruito nella forma di un carro enorme con 12 ruote che simboleggiano i 12 mesi dell'anno, trainato da 7 cavalli (forse simboleggiano i 7 gironi della settimana? Non sono sicuro se il calendario indiano aveva il concetto della settimana).









Pensando al senso di pudore e vergongna normalmente associato a tutto quello riguarda il sesso, pensavo all'impatto di queste statue così esplicite sulle donne e uomini provenienti dalle zone rurali o dalle piccole città. Vi erano anche alcuni gruppi di studenti in gita scolastica al tempio. Ma poi ho notato che a parte qualche raro uomo, la maggior parte dei pellegrini non alza la testa per guardare le statue erotiche o se lo fa, lo fa di sfuggito per un attimo.















Perché gli antichi popoli del tredicessimo secolo dell'India avevano deciso di costruire templi erotici, mescolando insieme sesso e preghiera? Era un periodo nella storia indiana, quando le persone erano riuscite a superare gli antichi tabù legati al sesso? Le poesie indiane scritte nel shringar ras (colore della bellezza) possono essere molto esplicite riguardo il sesso. Erano le persone che già pregavano agli organi sessuali (shivalinga e Yoni) del dio Shiva e della dea Parvati? Questi templi erano parte della via tantrik alla ricerca di Dio? Non so le risposte a queste domande.




Pensavo che le sculture di Konark sono un'inno al sesso eterosessuale. Avevo visto qualche statua con tre figure, ma erano sempre un uomo con due donne e non avevo notato nessuna statua con due donne o due uomini in atteggiamenti omosessuali. Ma mentre sceglievo le foto per questo blog, ho notato un pannello un po' particolare che ha tre figure. La figura di destra, oltre ad avere un seno femminile sembra che ha anche un pene turgido. Forse, ai tempi di Konark, erano più tolleranti verso altre variazioni della sessualità umana?

sabato 23 febbraio 2008

La spiaggia di Konark - diario del viaggio

5 febbraio 2008

Siamo partiti da Bhuvaneshwar alle 5 di mattina e siamo arrivati alla spiaggia di Konark verso le 06,00. Il cielo era coperto e iniziava a schiarirsi. Abbiamo preso un thé caldo in questo negozietto.







Mentre bevevamo il thé all'improvviso ho visto le persone sedute vicino alla spiaggia. Pensavo che dovevamo vedere l'alba al tempio di Konark ma non avevo idea del perché della folla seduta vicino alla spiaggia.


Dott. Pati ha spiegato. Secondo il calendario indiano, inizio di febbraio è il mese di magh e in questo mese bisogna pregare al dio sole alla mattina. I contadini venivano dai villaggi ogni mattina per questa preghiera e erano in attesa del sole. In tanto file di contadini continuavano ad arrivare alla spiaggia.








Sulla spiaggia, un gruppo di donne di qualche villaggio conduceva qualche rito di preghiera particolare. Ero affascinato da loro ma avevo paura di avvicinarmi perché era un gruppo di sole donne.











Alla fine un preste si fermo vicino a loro per un attimo per la benedizione. Nel frattempo, le persone aspettavano con ansia di vedere il sole nascosto dietro le nuvole. I bimbi giocavano. Qualche raro bimbo si avventurava nell'acqua.











All'improvviso un gruppo seduto vicino si alzo, tutto eccitato. Avevano visto il sole. Era un sole pallido, appena appena visibile per pochi momenti. Loro alzaranno le proprie mani nelle gesta della preghiera. Ero commosso dalla semplicità della loro fede.











Fu una mattina bellissima, indimenticabile per la gioia e semplicità dei contadini nel momento della loro preghiera.

venerdì 22 febbraio 2008

India: Pagine del diario di viaggio (1)

31 gennaio 2008, Hyderabad

Siamo alloggiati in un hotel di Hitech city, la nuova parte della città. Anche se la chiamano Hi Tech (alta tecnologia), tutto sembra uguale al resto della città – negozi, folle infinite, rumore, odori, betel, clacson, traffico caotico, ecc. Sparsi in questa torrente della vita vi sono isole di alta tecnologia, sedi delle multinazionali come i Cybertowers, fortezze moderne sorvegliate da guardie armate ai cancelli, dove le strade sono larghe, pulite e deserte, l’erba verde e tagliata, e poi tanto vetro e acciaio.

Secondo Laltu, il mio amico scrittore e poeta che insegna all’università di Hyderabad, vi è un’altra differenza importante tra l’Hitech city e il resto della città di Hyderabad, ciò è, tutto costa cinque volte di più. Laltu è intenso e idealista. Il pomeriggio passato con lui è stato un concentrato denso di piacere. Ho registrato alcune sue poesie nella sua voce. Lui mi ha dato il suo libro dei racconti e una raccolta delle sue poesie.

E’ molto particolare la sensazione di essere in India, che non so come descrivere. Riguarda le persone. Ti accolgono. E’ come essere circondati da una massa infinita di accoglienza. E’ una sensazione molto piacevole che colora tutte le altre esperienze. E’ qualcosa alla quale ti abitui dopo un po’, e dopo non te ne accorgi più. Mi piace uscire fuori sulla strada per sentire questa sensazione.

Cerco un ristorante del sud India intorno all’hotel. Voglio mangiare una dosa, foglia croccante di pasta di riso, con delle patate speziate. A Bologna sono stati aperti tanti ristoranti indiani, ma la maggior parte di loro non sono gestiti da indiani o non hanno cuochi indiani, e in ogni caso, non conosco nessun posto dove si può mangiare una dosa in Italia. I nostri tentativi di preparare queste dosa a casa a Bologna, fin’ora non sono andati a buon fine.

Il congresso sulla lebbra si tiene al nuovo centro internazionale dei congressi, una delle fortezze della alta tecnologia costruite da poco, difficile da arrivarci. Poi, non lasciano che le umili autorisciò entrino dentro ai loro cancelli. Si può entrare solo con la macchina. E’ una rottura di palle da non credere arrivarci tutti i giorni con i mezzi pubblici. Per aiutarci, hanno organizzato dei bus charter che ci prelevano dagli hotel e ci riaccompagnano in dietro la sera. Per fortuna, le discussioni sono molto interessanti. Passo delle ore a andare in giro, ascoltare relazioni, discutere animatamente con le vecchie e le nuove conoscenze. Ogni tanto quando qualcuno è noioso, sonnecchio.

Infatti, mi sembra di avere sempre sonno. Tutto il giorno penso al letto e poi, la sera, appena mi ci infilo dentro, il sonno scompare. Sono costretto a guardare cazzate alla televisione che sembra impazzito. Ormai, la liberalizzazione della televisione indiana è completa e vi sono almeno 10 canali che trasmettono notizie 24 ore su 24, ognuno di loro disperato per accaparrare l’audience e per cui ogni notizia è annunciata come fosse l’attacco alle torri gemelle e vanno avanti con delle cretinate incredibili per delle ore. Verso la mattina, quando inizio a dormire bene, è ora di alzarsi per non perdere il bus che ci porta al centro congressi.

A volte penso che se tu viaggi sempre dentro le macchine con l’aria condizionata, esci dal tuo appartamento che si trova dentro un centro residenziale circondato dalle mura e con la guardia al cancello, poi entri dentro il tuo centro di alta tecnologia o l’ufficio di una multinazionale, anche questa dentro un centro circondato dalle mura e con delle guardie al cancello, sei veramente in India o sei dentro un altro paese? Vedi diversamente la situazione dei poveri e degli esclusi? In qualche modo sei un indiano meno autentico, un po’ meno indiano? Ci penso a queste domande, quando G viene a prendermi all’hotel. Lui è figlio di mia zia, lavora per una grossa multinazionale, viaggia spesso all’estero, vive in un centro residenziale dei ricchi. Il suo mondo sembra troppo perfetto e isolato dal mondo caotico che ci circonda. So che è un’illusione, questa sua distanza dall’altra India. Lontano dal mondo delle multinazionali conosco la casa a Delhi, da dove lui è uscito e dove torna ogni tanto a trovare sua madre che vive in quell’altra India. Può sembrare isolato dall’India dei poveri, ma invece se guardi dietro la facciata, lui conosce bene quell’India, troppo bene. Ma tutti gli altri come lui, loro conoscono quell'altra India?

***

2 febbraio 2008, Hyderabad

Le mie prime memorie di questa città sono un po’ sfuocate. Penso che ero venuto qui per la prima volta nel 1959 o nel 1960. Mi ricordo vagamente il viaggio in treno, di aver passato la stazione di Bhopal, e di aver dormito nella cuccetta di sopra. Eravamo in tre, io, Pinky e mia mamma. Andavamo a trovare papà che a quell’epoca lavorava a Hyderabad. Mi ricordo vagamente la casa nella vecchia città vicino a Char Minar, dove giocavamo nel cortile, cantavo “Madhuban mein radhika nacchi re” e Pinky ballava. Quella casa dove fuori c’era una piccola fontana con dei pesci. Una volta ero caduto dentro la fontana e avevo avuto molta paura di essere mangiato vivo dai pesci. Vicino c’erano le fabbriche che producevano i braccialetti di vetro, per i quali Hyderabad era famosa. Le passeggiate lungo l’Hussein Sagar, il lago di Hyderabad. Ho il ricordo di una sera, era il mio compleanno e pioveva, ma ero contento del gioco che mi avevano comprato, un giocattolo con la chiavetta che poteva aprire un piccolo ombrello che girava con la musica.

Avevo nostalgia di quei giorni. E speravo di poter cercare quella casa. Così sono uscito dal congresso per andare alla vecchia città. L’antico ospedale Unani, la moschea Mecca, il monumento di Char Minar con le sue quattro torri, le piccole strade dove si vendono i braccialetti colorati di vetro, per ore ho girato in quella zona. Non sono riuscito a identificare la strada dove ero stato da bambino.

Ho parlato con una signora che chiedeva monete ai passanti. Si chiama Salma e proviene da Sholapur. Porta il velo nero delle donne musulmane. “Cosa devo fare? Non riesco a lasciarmi morire dalla fame. Sono vecchia e vedova. I figli sono sposati e sistemati, non voglio essere un peso per loro”, il misto di vergogna e impotenza nei suoi occhi, mi ha fatto vergognare della mia invadenza.

Comunque, non riesco a farne meno di parlare con le persone, attacco bottone con tutti. Con i due ragazzi che vendono fazzoletti all’angolo della strada. Quello grande si chiama Abdul, è un musulmano e vuole essere fotografato, sta diritto orgoglioso, quando gli scatto la foto. Il ragazzino piccolo si chiama Dev Raj, è un indù e sta seduto con un sorriso imbarazzato. “Come è che non vai a scuola?” gli chiedo e lui non mi risponde, soltanto nega con la testa.

Chiacchiero anche con l’anziano custode del piccolo santuario del Pir all’interno di Char Minar. Si chiama Abdel Siddiq e fa custode da 41 anni. Prima di lui, il suo zio, fratello di sua mamma, era il custode. Parla un urdu letterario con i fiocchi, sembra un imperatore Mugul uscito da un film, ed è un gusto sentirgli parlare. “E’ originario di Delhi? Grande città la Delhi. Benvenuto alla nostra umile dimora. Quale impegno porta il nobile Signore a visitare questa polverosa Hyderabad?”

Alla sera ho preso un autorisciò per tornare all’hotel. Il mio guidatore era Gurpreet Singh, un giovane ragazzo sikh e durante il viaggio di ritorno, ho chiacchierato con lui. I suoi bis nonni erano arrivati a Hyderabad più di cent anni fa e lui si sente parte di questa città. Ha 29 anni, è laureato in scienze politiche, da 6 anni è sposato, ha due figli e per tre anni ha lavorato in una banca. “Non si guadagna molto con la banca, meglio avere questo autorisciò. Ho avuto un prestito dalla banca per comprarlo e l’ho già ripagato tutto.” Parliamo dei suoi genitori, dei suoi figli e della sua moglie. “No, lei non lavora. Gli uomini di Hyderabad non possono mandare le mogli a lavorare, sarebbe contro la nostra cultura. Lei deve prendere cura della casa e di miei genitori. Lo so che le donne di oggi vogliono lavorare, ma io sono all’antica ..”




















giovedì 21 febbraio 2008

La violenza nelle parole

Mi sembra chiaro che l’articolo di Efraim Medina Reyes “Il sesso forte” (Internazionale 726) sia stato scritto per scandalizzare. Usa termini come fica, gang bang, stupro e non cerca in nessun modo di misurare le parole. Perché stupirsi? Non diciamo parolacce in altri contesti? A disturbarmi è soprattutto la corrente di violenza sottintesa. Tanto più che il suo articolo parla della violenza nel mondo e, in particolare, di quella contro le donne. Ho avuto perciò la sensazione che il suo discorso avesse un senso, ma che il modo in cui era stato scritto significasse l’opposto. Rispetto al passato siamo più tolleranti verso le parolacce, anche quando le troviamo nei libri e nelle riviste. In Italia vengono usate nel linguaggio di tutti i giorni e non sono più considerate un tabù. I genitori le usano con i figli e i figli le dicono davanti ai genitori. In un certo senso ne capisco il bisogno: per molto tempo abbiamo nascosto i nostri corpi e la sessualità dietro ad imbarazzi e silenzi. Mi sembra giusto far crollare quelle barriere che ci impediscono di parlare più apertamente di questa parte delle nostre vite. Non credo, però, che sia giusto farlo con il linguaggio di Medina Reyes perché ci porta a pensare ad alcune parti del nostro corpo come a degli oggetti. O alla sessualità come a una meccanica di penetrazioni e movimenti.

Nota: Lettera uscita sul numero 731 di Internazionale

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