domenica 6 luglio 2008

In Nome di Allah

“In Nome di Allah” (nome originale “Khuda Ke Liye”), è il nuovo e coraggioso film del regista pakistano Shoaib Mansoor. Nella pubblicità del film, il suo nome è stato tradotto in “In Nome di Dio”, invece ho preferito tradurlo come “In Nome di Allah”, perché il film è l’analisi della situazione dei musulmani moderati assediati dal fondamentalismo islamico da una parte e dall’altra, circondati da pregiudizi occidentali contro i musulmani dopo i fatti dell’11 settembre 2001. E’ un film onesto che affronta la questione in una maniera diretta.



Trama: Mansoor (Shan) e Sarmad (Fawad Khan) sono due fratelli musicisti che vivono con i genitori a Lahore in Pakistan. La loro è una famiglia benestante e liberale, che vuole vivere in maniera libera dai dettami dell’islam conservatore. I due fratelli sono appassionati della musica pop moderna.
Lo zio paterno di Mansoor e Sarmad vive a Londra. Lui convive con una donna inglese e ha una figlia Mary/Maryam (Iman Ali) da un precedente matrimonio con una donna inglese. Mary/Maryam è cresciuta con i valori più cristiani che musulmani ed è innamorata di un ragazzo inglese, Dave (Alex Naz), ma suo padre vuole che lei si comporti da una ragazza musulmana.
Tramite Sher Shah (Hameed Sheikh), un vecchio collaboratore afgano della famiglia, Sarmad viene in contatto con un prete musulmano, Maulana Tahir (Rasheed Naz). Secondo Maulana Tahir, suonare musica, vivere senza seguire le regole Coraniche, ecc. sono tutti peccati gravi e contro la legge islamica. Poco alla volta Sarmad comincia a cambiare, non vuole suonare musica, vuole che la madre porti il velo, si fa crescere la barba e inizia a frequentare la moschea.

Mansoor resta scioccato dal cambiamento che vede nel suo fratello ma non riesce a cambiarlo. Alla fine, i due fratelli so allontanano.

A Londra, il padre di Mary/Maryam non vuole che sua figlia si sposi con un cristiano ma finge di essere d’accordo e propone alla figlia di andare in Pakistan per una vacanza prima del matrimonio.

A Lahore, lui chiede a Mansoor di sposare forzatamente con Maryam, per salvarla dal "peccato mortale di sposare un non musulmano". Mansoor rifiuta lo zio. Il Papà di Mansoor chiede al fratello di non tentare di forzare il matrimonio della propria figlia, dice che anche tu avevi sposato una donna cristiana. Ma il papà di Maryam insiste, secondo lui l’uomo musulmano può sposare un infedele ma non una donna, e alla fine riesce a convincere Sarmad e Sher Shah, i quali portano Maryam in un villaggio isolato dell’Afghanistan, dove Maryam è costretta a sposare Sarmad, anche se dichiara di non voler sposare il suo cugino.

Il padre di Maryam parte lasciando la figlia con Sarmad nella casa di Sher Shah, dove vivono anche la madre a sposa di Sher Shah. Maryam cerca la fuga ma viene catturata. Sarmad ha dei dubbi continuamente se quello che lui fa nel nome di islam è giusto e tra Maulana Tahir e Sher Shah viene rassicurato. Così Sher Shah lo convince di violentare la moglie, “perché altrimenti cercherà sempre di sfuggire e non potremmo mai essere tranquilli”.



Mansoor e la famiglia non sanno dove si trovi Sarmad e non sanno né anche che ha avuto il matrimonio forzato con Maryam. Mansoor riceve una borsa di studio per l’America per studiare la musica e lascia il Pakistan. In America lui conosce Jenny (Austin Marie Sayse), una musicista e due si innamorano, ma Mansoor cerca di resistere perché ha molti dubbi se è il rapporto con una donna non musulmana funzionerà. Alla fine Mansoor parla con i suoi genitori i quali lo consigliano di seguire il suo cuore e non pensare alla differenza delle religioni.

Vi sono gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e in quel clima, Mansoor e Jenny si sposano. Poco dopo Mansoor viene prelevato dalla polizia americana e portato in prigione, c’è sospetto che lui sia un terrorista.

Maryam in Afghanistan resta incinta e fa finta di essere una donna sottomessa ma continua a tramare un modo per scappare, e alla fine riesce a mandare una lettera a Dave in Inghelterra. Dave insieme alla madre di Maryam, mobilità l’ambasciata inglese e la madre di Maryam parte per il Pakistan.

Mansoor è rinchiuso in prigione in America e viene torturato. Il fatto che suo fratello Sarmad sia un fondamentalista in Afghanistan, è una delle prove contro di lui.

Il padre di Sarmad quando conosce quello che hanno fatto suo fratello e padre di Maryam insieme al figlio Sarmad, parte subito per Afghanistan. Nessuno nel villaggio può fermarlo perché essendo padre dello sposo, può portare con se la nuora. Anche Sarmad decide di tornare in Pakistan insieme al padre e a Maryam. Essendo cittadina inglese, nessuno può fermare Maryam da lasciare il Pakistan, ma è in cinta e Maulana Tahiri chiede al tribunale che le sia vietato lasciare il paese in quanto il futuro bimbo appartiene al padre.



Al tribunale la testimonianza di un altro prete islamico, Maulana Wali (Naseeruddin Shah) è importante. Lui spiega che secondo il Corano, il matrimonio forzato non è valido e in ogni caso, Maryam non è musulmana per cui non si possono applicare le leggi musulmane per lei. Lui spiega anche che i divieti fondamentalisti contro la musica sono sbagliati in quanto uno dei santi musulmani Dawood era in musicista. Maryam è libera di tornare a Londra e Sarmad chiede scusa a Maryam e al padre per essersi lasciato influenzare da fondamentalisti.

Mansoor quando viene rilasciato dalla polizia americana per mancanza di prove, è un uomo distrutto, non riesce a stare in piedi e ha avuto danni cerebrali. Lui chiede di tornare in Pakistan. Sarmad pentito, suona la musica per il suo fratello, sperando che un giorno tornerà ad essere come era prima.

Commenti: E’ il secondo film pakistano che ho visto. Qualche anno fa avevo visto anche Khamosh Pani (Acque silenziose) che mi era piaciuto molto. In generale, il Lollywood (cinema di Lahore) è vista come una copia pallida del cinema di Bollywood ma ogni tanto vi sono registi indipendenti coraggiosi che riescono a sorprendere.

Non penso che sia facile per un regista Pakistano di parlare contro il fondamentalismo islamico. Dall’altra parte, il film ragiona anche sugli eccessi americani e occidentali, ed i rischi quando non si rispettano i diritti civili e umani delle persone, e per lottare contro il terrorismo, si sovvertono le leggi e la giustizia.

Il fatto che il film cerchi di mostrare Mansoor e i suoi genitori come bravi musulmani (persone che non bevono alcolici, che pregano, ecc.) anche se amano la musica e portano vestiti occidentali, mi ha colpito molto. Anche le discussioni conclusive al tribunale, dove tutto viene dibattuto in termini di lecito e illecito secondo il Corano, mi ha fatto pensare un po’.

Personalmente penso che nessun libro sacro può e deve dettare come dobbiamo viverci, se ciò è contro i diritti umani e la dignità delle persone secondo le concezioni sociali odierne. Dover ragionare tutto in termini di quello che dice o non dice il Corano mi sembra eccessivo. Ma questa è più una critica verso come si lascia che la religione determini tutto e non un problema del film. Si possono usare le stesse critiche anche verso altre religioni quando chiedono che le decisioni siano prese sulla base di quello che dice la Bibbia o il Bhagvad Gita o Il Torah.

Comunque il film cerca di mostrare che l’islam è una religione ragionevole e che i musulmani moderati si trovano in difficoltà più complesse. Nonostante qualche limite, il film fa riflettere e ci aiuta a capire i dilemmi per il mondo musulmano. Gli attori sono tutti bravi, il film è stato fotografato molto abilmente e la musica è bella.

giovedì 3 luglio 2008

Stato di emergenza in Mongolia

Il 23 giugno ero a Ulaan Baatar, mentre camminavo verso il palazzo dell’Opera dove si presentano gli spettacoli tradizionali di musica e danze per i turisti. Avevo la piazza Sukhbataar alle mie spalle, con il palazzo del parlamento e attraversavo la strada, quando intravidi la statua dietro i cespugli. Ero passato da lì molte altre volte, ma non avevo notato quella statua prima d’allora. Nascosta dai cespugli, dentro un piccolo parco, c’è la statua di Sanjaasurengiin Zorig, il leader del movimento democratico assassinato nel 1998.

Dietro la statua di Zorig, c’era un grande manifesto elettorale. Per tre settimane avevo girato in Mongolia. Ero stato a Ulgii vicino alla frontiera ovest del paese, dove vivono i Kazaki musulmani. Avevo visitato Ondorhan ad est di Ulaan Baatar dove si era abbattuta una terribile tempesta nel maggio 2008, uccidendo più di 300.000 capi di bestiame, gonfiando le file di nuovi poveri che si emigrano verso la capitale alla ricerca della sopravvivenza. Dappertutto si percepiva la febbre elettorale.

Hari, l’ex-vice sindaco di Ulgii è il coordinatore del programma di riabilitazione su base comunitaria (RBC) sostenuto da AIFO, ed è anche un esponente del partito democratico. Dorjgotov, il medico responsabile della provincia di Uvs e capo del comitato provinciale di RBC di Uvs, è un esponente del partito rivoluzionario. Partito democratico e partito rivoluzionario sono i due partiti principali, protagonisti delle elezioni previste per il 29 giugno 2008. Eravamo tutti insieme, Hari, Dorjgatov e altri, vicino al lago Achint, e parlavo con loro per cercare di capire i programmi dei due partiti.

Tuki (Tulgamma), la rappresentante di AIFO in Mongolia aveva detto, “Vedi Hari e Dorjgatov? Sono amici, anche se appartengono a due partiti diversi. Qui tutti sanno che dobbiamo pensare alle persone disabili, povere ed emarginate e la politica non entra nel nostro lavoro.

Mentre guardavo la statua di Zorig a Ulaan Baatar, pensavo alle discussioni con Hari e Dorjgatov. Non serve preoccuparsi. Le elezioni si svolgeranno in pace senza grosse difficoltà. Forse la Mongolia ha superato la fase più critica della trasformazione dallo stato protetto dell’Unione Sovietica ad una democrazia normale. Mi dicevo.

Erano così buffi questi ragazzi e ragazze con le magliette gialle e arancio che sbandieravano i programmi dei loro partiti, organizzavano piccoli comizi elettorali a sostegno dei propri candidati, giravano con le bandierine dei partiti sulle moto. Mi facevano pensare alle ragazze pom-pom del baseball americano.

Ieri sera li ho rivisti, quei ragazzi con le magliette gialle e arancio, nei telegiornali. Con i bastoni rompevano i vetri di un edificio e dietro bruciava qualcosa. “Sono scoppiati i disordini in Mongolia dopo la dichiarazione della vittoria del partito rivoluzionario... la polizia ha sparato ... i dimostranti hanno dato fuoco alla sede del partito rivoluzionario nel centro di Ulaan Baatar ... è stato dichiarato uno stato di emergenza di 4 giorni ...”, raccontano i telegiornali.

Nei 18 anni dopo lo scioglimento del regime comunista, simile situazione non si era mai vista prima, né anche quando avevano ucciso Zorig.

Come usare le enormi risorse minerali del paese sembra la vera domanda che divide i due partiti. Partito rivoluzionario vuole tenere il controllo statale per le miniere scoperte con aiuto pubblico, vuole che lo stato abbia il 51% delle azioni. Invece, il partito democratico propone la possibilità di proprietà completamente privata di queste miniere. In un mondo globalizzato, oggi le risorse naturali sono sempre più preziose. Avevo visto le enormi tendopoli dei “Ger Districts”, con i “ger”, le tende rotonde alla periferia di Ulaan Baatar, dove vivono circa 70% di oltre 1 milione di abitanti della capitale, e immagino che anche la Mongolia vuole la sua parte della torta della globalizzazione.

Forse era prevedibile che succedevano questi disordini. Quando sono di mezzo i miliardi da spartire, è naturale che vi siano dei disordini. E forse ci sono di mezzo anche gli altri? A Ulaangom, c’era un gruppo di volontari stranieri, ragazzi e ragazze venuti da paesi come Taiwan, Nuova Zelanda, Australia, Francia, Olanda, ecc. per andare in giro sulle bici e per fare la compagna per il partito democratico. Forse anche gli altri partiti hanno interessi nelle miniere mongole.

Mi dispiace per Mongolia. Spero che i miei amici, le persone conosciute durante il viaggio, riusciranno a salvarsi dall’impatto di questa violenza.

















domenica 29 giugno 2008

Parata gay, lesbiche, bisessuali e transsessuali di Bologna

Sono tornato dalla Mongolia due giorni fa. Ho migliaia di foto da sistemare da questo viaggio. E’ stato un viaggio molto bello e appassionante. Spero di sistemare presto queste foto e presentarle sulle pagine di Kalpana.

Invece ieri era 28 giugno, il giorno della parata gay, lesbiche, bisessuali, transessuali. Questa giornata ricorda il raid della polizia di New York a Stonewall Inn del 28 giugno 1969, quando invece di subire passivamente le brutalità e la repressione, le persone omosessuali raccolte lì quella sera deciserò di lottare.

Più cerco di capire le diverse sfaccettature delle diversità di genere, di identità sessuali e di preferenze sessuali, più mi confondo. Alla fine, parole come eterosessuali, bisessuali, omosessuali, transessuali, ecc. sono soltanto delle approssimazioni per rappresentare le nostre unicità.

Crescere in paesi come l’India non aiuta a avvicinarsi a questo mondo circondato dal senso di vergogna, discriminazione e sfruttamento. Corpi coperti, pudore, rispetto per le regole sociali, negazione delle diversità, ipocrizie sociali sono tutte barriere che crescono dentro di noi, quasi inconsapevolmente. Superare queste barriere non è facile.

“Perché sono così esibizioniste? Non possono essere un po’ più discrete?”, i pregiudizi mi sussurrano da dentro e cerco di reprimerli. Forse era per far zittire questi pregiudizi che ho gridato a squarcigola anch’io quando hanno chiesto di far sentire la nostra voce.

E mi costringo a scriverne sul mio blog in Hindi. “Fanno schifo” scrive qualcuno. Qualcun altro resta scioccato. La strada per arrivare ad un mondo giusto senza pregiudizi e discriminazioni è lunga e difficile.

Qui troverete alcune foto della parata. Potete trovare molte altre foto sugli album di Kalpana.








mercoledì 4 giugno 2008

La Camera Della Musica

E’ il miglior libro che ho letto quest anno. “The Music Room” di Namita Devi Dayal (Random House, India, 2007). I giudizi come “il migliore libro” sono molto soggettivi. Perché ci piace un libro? Forse quando riesce a evocare forte emozioni?

Avevo iniziato a leggere The Music Room, durante il mio viaggio a Ginevra. Accanto a me avevo due persone che parlavano continuamente. Quando non parlavano tra loro, parlavano al telefono. Con la voce alta. All’inizio sentivo questo senso di irritazione che mi viene quando penso che persone sono poco educate e non riuscivo a concentrare a quello che leggevo. Invece ci è voluto poco e ho dimenticato completamente i due chiacchieroni, emerso nella lettura. Ho finito il libro poco prima che siamo arrivati a Ginevra.


E’ un libro difficile da classificare. E’ in parte una auto-biografia della scrittrice, in parte è la storia di Dhondhutai, la sua insegnante di musica, in parte è la storia degli insegnanti di Dhondhutai e in parte un saggio sulla musica classica indiana.

Quando si parla di musica classica indiana, persone con un minimo di cultura musicale conoscono il sitar ed i nomi come quello di Ravi Shanker, ma sono pochi che conoscono la musica vocale classica, che si può paragonare all’opera ma forse somiglia di più alla musica sinfonica perché usa la voce come uno strumento musicale e non per cantare parole. Questa musica vocale indiana può essere suddivisa grossolanamente in due filoni principali, Hindustani ciò è la musica del nord, e Carnatak, la musica del sud dell’India. La musica Carnatak è l’antico sistema di canto indiano mentre il sistema Hindustani è la musica influenzata dall’incontro con i sistemi musicali persiani e arabi.

Anche in India non sono in molti che capiscono e apprezzano la musica Hindustani o Carnatak. Mentre nella musica sinfonica occidentale è relativamente facile identificare un ritmo e una melodia, apprezzare la musica classica indiana richiede maggiori sforzi. Il sistema musicale indiano è basato sulle 7 note come il sistema occidentale, ma il sistema indiano usa anche le ottave delle note, il che significa che la variazione tra le note è minore e bisogna ascoltarlo con maggior attenzione. Questa musica indiana è organizzata in Raga, ogni raga è regolato dalle norme sulle note, mezze note e ottavo delle note che si possano usare.

Le sinfonie occidentali sono scritte e i musicisti sono richiamati a rispettare le note scritte in maniera scrupolosa. Dall’altra parte i raga non hanno la musica scritta. Il musicista deve rispettare le regole del raga ma dentro quelle norme è libero di improvvisare e sviluppare la melodia come vuole. Ogni presentazione del raga si inizia con una fase lenta ed esplorativa delle note che si possono usare in quel raga, durante la quale si usano soltanto le note musicali indiane (sa, re, ga, ma, pa, dha, ni) senza parole. Nella fase conclusiva del raga si usano parole che esprimono le emozioni di quel raga.

Da bambino non mi piaceva la musica classica indiana, pensavo che era fatta di lamenti continui, ripetitiva e noiosa. Poi un mio zio mi fece ascoltare alcune bhajan cantate da Kumar Gandharav basate sulla musica classica indiana e iniziai a ascoltare la musica con maggiore attenzione ed a apprezzarla. All’università dove insegnava mia zia spesso venivano i cantanti della musica classica per promuovere questa musica tra gli studenti e iniziai ad andare a ascoltarli. Scoprì l’estasi quando ascoltai la cantante Prabha Atre (che potete ascoltare su Music India Online ).

Leggere il libro di Namita Devi Dayal era una riscoperta di questi ricordi. Non avevo mai pensato alla vita di questi artisti che continuano a seguire la loro musica come una preghiera anche senza un guadagno dignitoso.

Dhondutai, l’insegnante di musica di Namita e l’eroina del libro è una signora oggi oltre settantacinquenne. Namita racconta il suo primo incontro la sua insegnante 20 ani fa quando lei aveva 8 anni e Dhondhutai ne aveva più di cinquanta. Allora Dhondhutai viveva in una piccola camera in affitto insieme alla vecchia madre e per sopravvivere dava lezioni di musica. Poco alla volta Namita scopre che la sua semplice insegnante che vive nella povertà è uno degli ultimi artisti di una tradizione musicale importante per la musica classica indiana.

Dhondutai non vuole essere registrata, non vuole i dischi, chiede soltanto persone che ascoltano la sua arte con attenzione e dignità e cerca uno studente che è pronto a sacrificare la sua vita per la musica.

Il libro è anche la storia di cantanti indù e musulmani che si mescolano fede e musica in un modo che l’India deve sapere a valorizzare e insegnare al mondo, sempre più diviso con i muri e con gli scontri delle civiltà.

Spero che il libro sarà tradotto in italiano e anche se non si capisce la musica classica indiana, penso che riuscirete a apprezzare questo mondo che scompare, sotto assedio dalla globalizzazione e dal mondo frenetico di oggi. Non potete sentire la voce di Dhondutai, ma potete sentire la voce di Kesarbai Kerker, uno dei personaggi del libro, nell’unica registrazione si era concessa sul sito di Music India online.

lunedì 2 giugno 2008

Mario Barzaghi e la danza Kathakali

Il 13 aprile 2008, Mario Berzaghi dell’Associazione Culturale Teatro dell’Albero era a Bologna per uno spettacolo di danza del sud dell’India, la kathakali, nel ambito del festival del cinema Human Rights Nights 2008. Mentre lui si preparava, truccava e vestiva per lo spettacolo, ho registrato una piccola intervista con lui, anche se venivamo interrotti continuamente durante questa intervista per le questioni pratiche. Nella trascrizione dell’intervista MB significa Mario Berzaghi e SD significa Sunil Deepak.

SD: Cominciamo dall’inizio, quando e come hai iniziato con la danza kathakali?



MB: Ho iniziato a fare il kathakali nel 1981 al Teatro Tascabile di Bergamo. Un gruppo teatrale che tutt’ora esiste e che aveva iniziato a lavorare come lavoro di ricerca al teatro indiano nel 1978. Quindi quando io sono entrato in questo gruppo nel 1981, il regista del Teatro Tascabile mi ha chiesto di studiare kathakali, di fare pratica con mio maestro, che è tutt’ora il mio maestro, e si chiama Kalaamandalam K. M. John. Lui viene da Kerala Kalamandalam che è una delle scuole più prestigiose di kathakali. Quindi è stato un lavoro, un’opportunità che io ho incontrato entrando in quella compagnia, quel gruppo. Questo lavoro attorno al teatro classico era già iniziato ...

SD: Racconta un po’ delle tue esperienze prima di arrivare a kathakali. Conoscevi già l’India e le diverse danze classiche indiane?

MB: Non avevo benché la minima idea! Prima di entrare al Teatro Tascabile di Bergamo, facevo teatro di sera e avevo il mio lavoro ufficiale, ero un operaio metalmeccanico. Così facevo operaio e facevo teatro con il mio gruppo che si chiamava Teatro Sette, lavoravamo a Inzago in provincia di Milano. La mia formazione teatrale è iniziata così in modo parallelo perché avevo un lavoro ufficiale. Quindi come fanno i dilettanti quali si dilettano, come fanno gli amatori i quali amano il teatro, facevo teatro in quel modo. Avevo il mio lavoro ufficiale e c’era questa passione, non era un’hobby, questa passione che mi divorava in qualche modo. Avevamo dei ritmi molto, ma molto, forti.
SD: Quando sei stato in India, il tuo incontro con kathakali più tradizionale legata alla vita dei templi, quali differenze hai notato tra quello che avevi conosciuto in Italia e quello che viene vissuto in India?



MB: E’ molto diverso fare kathakali in un tempio rispetto ad un teatro. Se faccio kathakali in un teatro, pur interpretando una divinità, sono in un contesto laico. Mentre in un tempio, le responsabilità sono maggiori. E’ come se ci fosse davanti non degli spettatori ma dei fedeli. Questa è la differenza rispetto alle due situazioni che grazie al cielo, ho potuto frequentare perché con mio maestro ho fatto degli spettacoli in templi. Mio maestro faceva da tramite quindi ho potuto fare questo, perché lavoravo con il maestro.


(Questo post è un estratto da un articolo più ampio che potete trovare sul Kalpana, la mia web page.)

Post Più Letti

Camminare Diversamente: Libro - Passo Lento

Recentemente, Antonella Patete e Nicola Rabbi hanno scritto un libro, " Passo lento - Camminare Insieme Per l'inclusione ",...