martedì 26 febbraio 2008

Sesso e Preghiera

Avevo sentito parlare molto dell'arte erotica di Khujaraho e Konark, ma non avevo avuto l'opportunità di visitarli. Mentre ero a Bhuvaneshwar, quando mio collega, dott. Mani ha proposto di partire presto alla mattina per poter visitare il tempio di Konark, l'ho accolto con gioia.

La prima vista delle rovine del tempio al dio Sole, costruito intorno al 1250 d.c., avvolto da una leggera nebbia era incredebile.




Come spesse succede, vi erano molti malati di lebbra all'entrata del tempio. Parlai con uno di loro e controllai la sua mano e gli consigliai di farlo operare presso il centro di chirurgia ricostruttiva della lebbra, ma lui non era convinto. Diceva che avere la mano giusta avrebbe influito negativamente sulla sua capacità di raccogliere le offerte dei pellegrini! Gli dissi che aveva perso le dita dell'altra mano, aveva ulcere ai piedi e questi erano sufficienti per la sua professione di mendicante, ma aveva una mano ancora buona e sarebbe stato stato saggio cercare di mantenerla buona. Scosse la testa e mi disse che avrebbe pensato al mio consiglio.







Pellegrini di tutti tipi giravo intorno, la maggior parte di loro sembravano persone provenienti dai villaggi intorno e dalle piccole città del Bengala. Probabilmente si fermavano a Konark sulla strada per il tempio di Jaggan Nath a Puri.














Mentre le bellissime statue nella parte iniziale del tempio sono innocue quelle sulle pareti del tempio principale non lasciano dubbi sulla loro natura sessuale. Intorno all'entrata principale del principale edificio del tempio, vi sono 4 statue erotiche giganti con diversi pannelli più piccoli con scene di sesso intorno ad esse.









Sulle pareti laterali del tempio, le statue sono organizzate in tre livelli separati. Le statue più basse, mostrano scene non erotiche con i vari dei e animali mitici mentre il livello più alto, continene le statue erotiche. Le statue sono molto esplicite. Secondo il dott. Mani, questa organizzazione di statue è stato fatto per proteggere i pellegrini bambini, i quali guardano le scene più innocue.









Le scene di sesso mostrano le diverse variazioni sul tema descritte nei testi di Kamasutra, compreso il sesso orale. Le statue sono molto espressive, quasi tutte con espressioni di gioia e di piacere.

Quasi tutte le statue degli uomini hanno degli organi sessuali enormi gonfiati dall'eccitazione. Probabilmente i pellegrini maschi tornavano a casa con un senso di inferiorità!




Konark non è soltanto erotismo ma è una struttura incredibilmente bella. Sono rimasto affascinato dalle statue del dio sole come quella nell'immagine sotto, seduto su un cavallo.




L'intero tempio è costruito nella forma di un carro enorme con 12 ruote che simboleggiano i 12 mesi dell'anno, trainato da 7 cavalli (forse simboleggiano i 7 gironi della settimana? Non sono sicuro se il calendario indiano aveva il concetto della settimana).









Pensando al senso di pudore e vergongna normalmente associato a tutto quello riguarda il sesso, pensavo all'impatto di queste statue così esplicite sulle donne e uomini provenienti dalle zone rurali o dalle piccole città. Vi erano anche alcuni gruppi di studenti in gita scolastica al tempio. Ma poi ho notato che a parte qualche raro uomo, la maggior parte dei pellegrini non alza la testa per guardare le statue erotiche o se lo fa, lo fa di sfuggito per un attimo.















Perché gli antichi popoli del tredicessimo secolo dell'India avevano deciso di costruire templi erotici, mescolando insieme sesso e preghiera? Era un periodo nella storia indiana, quando le persone erano riuscite a superare gli antichi tabù legati al sesso? Le poesie indiane scritte nel shringar ras (colore della bellezza) possono essere molto esplicite riguardo il sesso. Erano le persone che già pregavano agli organi sessuali (shivalinga e Yoni) del dio Shiva e della dea Parvati? Questi templi erano parte della via tantrik alla ricerca di Dio? Non so le risposte a queste domande.




Pensavo che le sculture di Konark sono un'inno al sesso eterosessuale. Avevo visto qualche statua con tre figure, ma erano sempre un uomo con due donne e non avevo notato nessuna statua con due donne o due uomini in atteggiamenti omosessuali. Ma mentre sceglievo le foto per questo blog, ho notato un pannello un po' particolare che ha tre figure. La figura di destra, oltre ad avere un seno femminile sembra che ha anche un pene turgido. Forse, ai tempi di Konark, erano più tolleranti verso altre variazioni della sessualità umana?

sabato 23 febbraio 2008

La spiaggia di Konark - diario del viaggio

5 febbraio 2008

Siamo partiti da Bhuvaneshwar alle 5 di mattina e siamo arrivati alla spiaggia di Konark verso le 06,00. Il cielo era coperto e iniziava a schiarirsi. Abbiamo preso un thé caldo in questo negozietto.







Mentre bevevamo il thé all'improvviso ho visto le persone sedute vicino alla spiaggia. Pensavo che dovevamo vedere l'alba al tempio di Konark ma non avevo idea del perché della folla seduta vicino alla spiaggia.


Dott. Pati ha spiegato. Secondo il calendario indiano, inizio di febbraio è il mese di magh e in questo mese bisogna pregare al dio sole alla mattina. I contadini venivano dai villaggi ogni mattina per questa preghiera e erano in attesa del sole. In tanto file di contadini continuavano ad arrivare alla spiaggia.








Sulla spiaggia, un gruppo di donne di qualche villaggio conduceva qualche rito di preghiera particolare. Ero affascinato da loro ma avevo paura di avvicinarmi perché era un gruppo di sole donne.











Alla fine un preste si fermo vicino a loro per un attimo per la benedizione. Nel frattempo, le persone aspettavano con ansia di vedere il sole nascosto dietro le nuvole. I bimbi giocavano. Qualche raro bimbo si avventurava nell'acqua.











All'improvviso un gruppo seduto vicino si alzo, tutto eccitato. Avevano visto il sole. Era un sole pallido, appena appena visibile per pochi momenti. Loro alzaranno le proprie mani nelle gesta della preghiera. Ero commosso dalla semplicità della loro fede.











Fu una mattina bellissima, indimenticabile per la gioia e semplicità dei contadini nel momento della loro preghiera.

venerdì 22 febbraio 2008

India: Pagine del diario di viaggio (1)

31 gennaio 2008, Hyderabad

Siamo alloggiati in un hotel di Hitech city, la nuova parte della città. Anche se la chiamano Hi Tech (alta tecnologia), tutto sembra uguale al resto della città – negozi, folle infinite, rumore, odori, betel, clacson, traffico caotico, ecc. Sparsi in questa torrente della vita vi sono isole di alta tecnologia, sedi delle multinazionali come i Cybertowers, fortezze moderne sorvegliate da guardie armate ai cancelli, dove le strade sono larghe, pulite e deserte, l’erba verde e tagliata, e poi tanto vetro e acciaio.

Secondo Laltu, il mio amico scrittore e poeta che insegna all’università di Hyderabad, vi è un’altra differenza importante tra l’Hitech city e il resto della città di Hyderabad, ciò è, tutto costa cinque volte di più. Laltu è intenso e idealista. Il pomeriggio passato con lui è stato un concentrato denso di piacere. Ho registrato alcune sue poesie nella sua voce. Lui mi ha dato il suo libro dei racconti e una raccolta delle sue poesie.

E’ molto particolare la sensazione di essere in India, che non so come descrivere. Riguarda le persone. Ti accolgono. E’ come essere circondati da una massa infinita di accoglienza. E’ una sensazione molto piacevole che colora tutte le altre esperienze. E’ qualcosa alla quale ti abitui dopo un po’, e dopo non te ne accorgi più. Mi piace uscire fuori sulla strada per sentire questa sensazione.

Cerco un ristorante del sud India intorno all’hotel. Voglio mangiare una dosa, foglia croccante di pasta di riso, con delle patate speziate. A Bologna sono stati aperti tanti ristoranti indiani, ma la maggior parte di loro non sono gestiti da indiani o non hanno cuochi indiani, e in ogni caso, non conosco nessun posto dove si può mangiare una dosa in Italia. I nostri tentativi di preparare queste dosa a casa a Bologna, fin’ora non sono andati a buon fine.

Il congresso sulla lebbra si tiene al nuovo centro internazionale dei congressi, una delle fortezze della alta tecnologia costruite da poco, difficile da arrivarci. Poi, non lasciano che le umili autorisciò entrino dentro ai loro cancelli. Si può entrare solo con la macchina. E’ una rottura di palle da non credere arrivarci tutti i giorni con i mezzi pubblici. Per aiutarci, hanno organizzato dei bus charter che ci prelevano dagli hotel e ci riaccompagnano in dietro la sera. Per fortuna, le discussioni sono molto interessanti. Passo delle ore a andare in giro, ascoltare relazioni, discutere animatamente con le vecchie e le nuove conoscenze. Ogni tanto quando qualcuno è noioso, sonnecchio.

Infatti, mi sembra di avere sempre sonno. Tutto il giorno penso al letto e poi, la sera, appena mi ci infilo dentro, il sonno scompare. Sono costretto a guardare cazzate alla televisione che sembra impazzito. Ormai, la liberalizzazione della televisione indiana è completa e vi sono almeno 10 canali che trasmettono notizie 24 ore su 24, ognuno di loro disperato per accaparrare l’audience e per cui ogni notizia è annunciata come fosse l’attacco alle torri gemelle e vanno avanti con delle cretinate incredibili per delle ore. Verso la mattina, quando inizio a dormire bene, è ora di alzarsi per non perdere il bus che ci porta al centro congressi.

A volte penso che se tu viaggi sempre dentro le macchine con l’aria condizionata, esci dal tuo appartamento che si trova dentro un centro residenziale circondato dalle mura e con la guardia al cancello, poi entri dentro il tuo centro di alta tecnologia o l’ufficio di una multinazionale, anche questa dentro un centro circondato dalle mura e con delle guardie al cancello, sei veramente in India o sei dentro un altro paese? Vedi diversamente la situazione dei poveri e degli esclusi? In qualche modo sei un indiano meno autentico, un po’ meno indiano? Ci penso a queste domande, quando G viene a prendermi all’hotel. Lui è figlio di mia zia, lavora per una grossa multinazionale, viaggia spesso all’estero, vive in un centro residenziale dei ricchi. Il suo mondo sembra troppo perfetto e isolato dal mondo caotico che ci circonda. So che è un’illusione, questa sua distanza dall’altra India. Lontano dal mondo delle multinazionali conosco la casa a Delhi, da dove lui è uscito e dove torna ogni tanto a trovare sua madre che vive in quell’altra India. Può sembrare isolato dall’India dei poveri, ma invece se guardi dietro la facciata, lui conosce bene quell’India, troppo bene. Ma tutti gli altri come lui, loro conoscono quell'altra India?

***

2 febbraio 2008, Hyderabad

Le mie prime memorie di questa città sono un po’ sfuocate. Penso che ero venuto qui per la prima volta nel 1959 o nel 1960. Mi ricordo vagamente il viaggio in treno, di aver passato la stazione di Bhopal, e di aver dormito nella cuccetta di sopra. Eravamo in tre, io, Pinky e mia mamma. Andavamo a trovare papà che a quell’epoca lavorava a Hyderabad. Mi ricordo vagamente la casa nella vecchia città vicino a Char Minar, dove giocavamo nel cortile, cantavo “Madhuban mein radhika nacchi re” e Pinky ballava. Quella casa dove fuori c’era una piccola fontana con dei pesci. Una volta ero caduto dentro la fontana e avevo avuto molta paura di essere mangiato vivo dai pesci. Vicino c’erano le fabbriche che producevano i braccialetti di vetro, per i quali Hyderabad era famosa. Le passeggiate lungo l’Hussein Sagar, il lago di Hyderabad. Ho il ricordo di una sera, era il mio compleanno e pioveva, ma ero contento del gioco che mi avevano comprato, un giocattolo con la chiavetta che poteva aprire un piccolo ombrello che girava con la musica.

Avevo nostalgia di quei giorni. E speravo di poter cercare quella casa. Così sono uscito dal congresso per andare alla vecchia città. L’antico ospedale Unani, la moschea Mecca, il monumento di Char Minar con le sue quattro torri, le piccole strade dove si vendono i braccialetti colorati di vetro, per ore ho girato in quella zona. Non sono riuscito a identificare la strada dove ero stato da bambino.

Ho parlato con una signora che chiedeva monete ai passanti. Si chiama Salma e proviene da Sholapur. Porta il velo nero delle donne musulmane. “Cosa devo fare? Non riesco a lasciarmi morire dalla fame. Sono vecchia e vedova. I figli sono sposati e sistemati, non voglio essere un peso per loro”, il misto di vergogna e impotenza nei suoi occhi, mi ha fatto vergognare della mia invadenza.

Comunque, non riesco a farne meno di parlare con le persone, attacco bottone con tutti. Con i due ragazzi che vendono fazzoletti all’angolo della strada. Quello grande si chiama Abdul, è un musulmano e vuole essere fotografato, sta diritto orgoglioso, quando gli scatto la foto. Il ragazzino piccolo si chiama Dev Raj, è un indù e sta seduto con un sorriso imbarazzato. “Come è che non vai a scuola?” gli chiedo e lui non mi risponde, soltanto nega con la testa.

Chiacchiero anche con l’anziano custode del piccolo santuario del Pir all’interno di Char Minar. Si chiama Abdel Siddiq e fa custode da 41 anni. Prima di lui, il suo zio, fratello di sua mamma, era il custode. Parla un urdu letterario con i fiocchi, sembra un imperatore Mugul uscito da un film, ed è un gusto sentirgli parlare. “E’ originario di Delhi? Grande città la Delhi. Benvenuto alla nostra umile dimora. Quale impegno porta il nobile Signore a visitare questa polverosa Hyderabad?”

Alla sera ho preso un autorisciò per tornare all’hotel. Il mio guidatore era Gurpreet Singh, un giovane ragazzo sikh e durante il viaggio di ritorno, ho chiacchierato con lui. I suoi bis nonni erano arrivati a Hyderabad più di cent anni fa e lui si sente parte di questa città. Ha 29 anni, è laureato in scienze politiche, da 6 anni è sposato, ha due figli e per tre anni ha lavorato in una banca. “Non si guadagna molto con la banca, meglio avere questo autorisciò. Ho avuto un prestito dalla banca per comprarlo e l’ho già ripagato tutto.” Parliamo dei suoi genitori, dei suoi figli e della sua moglie. “No, lei non lavora. Gli uomini di Hyderabad non possono mandare le mogli a lavorare, sarebbe contro la nostra cultura. Lei deve prendere cura della casa e di miei genitori. Lo so che le donne di oggi vogliono lavorare, ma io sono all’antica ..”




















giovedì 21 febbraio 2008

La violenza nelle parole

Mi sembra chiaro che l’articolo di Efraim Medina Reyes “Il sesso forte” (Internazionale 726) sia stato scritto per scandalizzare. Usa termini come fica, gang bang, stupro e non cerca in nessun modo di misurare le parole. Perché stupirsi? Non diciamo parolacce in altri contesti? A disturbarmi è soprattutto la corrente di violenza sottintesa. Tanto più che il suo articolo parla della violenza nel mondo e, in particolare, di quella contro le donne. Ho avuto perciò la sensazione che il suo discorso avesse un senso, ma che il modo in cui era stato scritto significasse l’opposto. Rispetto al passato siamo più tolleranti verso le parolacce, anche quando le troviamo nei libri e nelle riviste. In Italia vengono usate nel linguaggio di tutti i giorni e non sono più considerate un tabù. I genitori le usano con i figli e i figli le dicono davanti ai genitori. In un certo senso ne capisco il bisogno: per molto tempo abbiamo nascosto i nostri corpi e la sessualità dietro ad imbarazzi e silenzi. Mi sembra giusto far crollare quelle barriere che ci impediscono di parlare più apertamente di questa parte delle nostre vite. Non credo, però, che sia giusto farlo con il linguaggio di Medina Reyes perché ci porta a pensare ad alcune parti del nostro corpo come a degli oggetti. O alla sessualità come a una meccanica di penetrazioni e movimenti.

Nota: Lettera uscita sul numero 731 di Internazionale

sabato 26 gennaio 2008

Bilancio finale

Domani partirò per l’India. Penso che sia il momento giusto per fare un bilancio dell’esperienza di Torino. Ero tornato da Torino con una testa in subbuglio, e avevo bisogno di un po’ di tempo per calmarmi e per lasciar sedimentare i pensieri. Ora penso di aver digerito le esperienze e posso tentare di farne un bilancio finale.

Alessandro del Premio Grinzane mi aveva contattato verso il 20 novembre 2007. Zahoor gli aveva dato il mio nome. Zahoor è originario del Kashmir. Lui insieme alla sua moglie, Renata, ha scritto il libro Storie dell’India, pubblicato da Edizioni Progetto Cultura di Roma. E’ un libro molto particolare. Quando l’avevo letto, mi aveva fatto pensare alla mia vita da bambino negli anni sessanta. I racconti di questo libro sono un po’ retro, ciò è scritti in uno stile che somiglia alle storie dei libri popolari di quelli anni, quelli che allora erano trattati come libri “pulp fiction”. Rispecchiavano la semplicità di quei giorni, quando le scelte erano limitate, non c’era corrente elettrica in casa e la luce delle lanterne scandiva le ore serali.

Penso che Alessandro aveva contattato Zahoor per parlargli degli scrittori indiani e Zahoor gli aveva dato il mio indirizzo di email. Dalla prima volta che avevo parlato con Alessandro, subito avevo cercato di promuovere l’idea che la letteratura indiana va molto oltre i pochi scrittori conosciuti in occidente, quelli che scrivono in inglese. Non solo, ma che vi sono dei dibattiti importanti tra gli scrittori indiani riguardo la rappresentanza dei gruppi emarginati, come gli scrittori dalit, e le domande che scaturiscono da questi dibattiti, per esempio sulla definizione della letteratura.

Dall’India, i libri sulla religione, sulla spiritualità e sui temi esotici come il kamasutra, la meditazione e lo yoga sono stati tradotti e hanno trovato larga diffusione in occidente. I testi considerati i capolavori della scrittura antica indiana come gli scritti di Kalidasa nel 4° secolo d.c. sono completamente sconosciuti in Italia e in Europa, se non tra pochi studiosi nelle università. Gli innumerevoli scrittori indiani del ventesimo secolo, i quali hanno scelto di esprimersi in lingua indiana sono ugualmente sconosciuti in occidente. Scrittori prolifici e popolari come Bimal Mitra, Asha Purna Devi, Acharya Chatur Sen, Rangey Raghav, Munshi Prem Chand, ognuno dei quali ha scritto decine di libri importanti non sono mai stati tradotti in nessuna lingua europea. Poeti più importanti della letteratura hindi come Mahadevi Varma, Nirala, Muktibodh, Raghuvir Sahay, hanno subito lo stesso destino. Tagore, l’unico premio nobel indiano per la letteratura, riuscì ad avere il riconoscimento grazie alla traduzione in inglese della sua opera Gitanjali, infatti, la citazione alla consegna del premio recitava, “.. per i suoi versi profondamente sensibili, freschi e belli che con consumata abilità lui ha scritto il suo pensiero poetico, esprimendosi in inglese, per diventare parte della letteratura occidentale …”

Il più importante premio letterario nazionale dell’India, Rashtriya Sahitya Accademy Awards, è un riconoscimento dato agli scrittori più importanti del paese. Dei vincitori del premio negli ultimi cinquant’anni, soltanto uno di questi autori, ha avuto i suoi libri tradotti in italiano.

Vi sono altri spazi all’interno della società indiana che non sono rappresentati nella letteratura indiana. E’ indubbio che negli ultimi cento anni della letteratura indiana le voci dominanti sono quelle delle persone appartenenti alle caste più alte, delle persone che rappresentano le classi più alte e fino a un certo punto, le classi medio borghesi. Questo è vero anche per gli scrittori nelle lingue indiane. C’è invece l’India delle caste basse, i dalit (letteralmente i calpestati), l’India delle minoranze religiose, etniche e sociali, l’India dei gruppi poveri e emarginati che non avevano e per molti versi continuano a non avere una voce nel mondo letterario indiano. All’interno di questi gruppi le voci delle donne rimangono ancora più nascoste. Soltanto negli ultimi decenni le voci dei dalit hanno assunto un valore importante nel mondo della letteratura. Tra i gruppi emarginati vorrei sottolineare i gruppi omosessuali, gay e lesbiche, che sono completamente assenti dallo scenario letterario per i forti tabù sociali e culturali.

Alessandro aveva accolto quasi subito questa mia tesi e ha dato la possibilità a due scrittori che scrivono in Hindi, Uday Prakash e Bhagwan Dass Morwal, di partecipare al convegno. Non è molto ma è un inizio. Dopo il convegno, ho già avuto qualche contatto con le case editrici interessati alla pubblicazione di scrittori indiani ancora sconosciuti in Italia.

La mia partecipazione al convegno di Torino ha dato molta visibilità anche a me. Qualcuno mi ha chiesto di scrivere per qualche rivista. Qualcuno si è mostrato interessato alla traduzione in italiano di alcuni miei racconti scritti in Hindi. Molte persone mi hanno scritto per dire che avevano apprezzato il mio intervento. Tutto questo è molto gratificante ed vorrei impegnarmi per fare uno sforzo in più per scrivere non soltanto in hindi ma anche in italiano.

Dall’altra parte, il convegno di Torino mi ha aiutato a capire me stesso meglio e che cosa voglio dalla mia vita. Anzitutto mi ha fatto capire che la mia prima passione resterà il mio lavoro con AIFO, il lavoro di medico della lebbra e che la scrittura sarà in seconda fila, sempre una passione per il mio tempo libero.

Avevo sentito che qualcuno ha scritto un commento critico su il Manifesto riguardo la riunione di Torino e subito avevo immaginato che avranno criticato la scelta di avere quasi tutti gli scrittori come rappresentanti dell’India ricca e anglofona e pochi rappresentanti delle altre letterature indiane. Ieri finalmente sono riuscito a leggere questo articolo. E’ scritto da una persona che si firma, m.t.c. e l’articolo mi ha sorpreso un po’. m.t.c. ha ragione quando scrive che sono stato invitato a Torino soltanto perché ero di Bologna. Ma per il resto non ho capito la sua critica. Si lamenta che non vi erano nomi famosi, i personaggi importanti della scrittura indiana! Sono contento che al premio Grinzane le persone la pensavano diversamente da m.t.c.

Penso che era bello il miscuglio di nomi affermati come Shashi Tharoor, M. J. Akbar e Tarun Tejpal; i giovani talenti come Nirpal Singh, Lavanya Shanker e Altaf Tyrewala e che vi erano 3 rappresentanti della scrittura nelle lingue indiane, Gayathri Murthy, Uday Prakash e Bhagwan Dass!

L’unica critica che posso fare è che erano troppe le persone provenienti dalle grandi metropoli, scrittori che appartengono alla classe medio alta, che hanno beneficiato dalla crescita economica dell’India degli ultimi anni. Mentre gli scrittori rappresentanti dell’altra India, quella che è sempre povera e emarginata, erano pochi. Ma devo riconoscere che almeno c’erano, perché quasi sempre non ci sono, perché sono molto spesso dimenticati. Grazie Alessandro.

domenica 20 gennaio 2008

Il Mahatma e il Mercato

Sono tornato da Torino, dopo 3 giorni intensi. Penso di aver fatto un'indigestione degli scrittori. Era così bello incontrare diversi scrittori. Quando leggi un autore, ne crei un'immagine interna e poi, quando hai occasione di incontrare la persona, scopri le differenze tra il personaggio della tua creazione e la persona. Comunque, per il momento, ho una tempesta di pensieri nella testa e bisogna che aspetti che si calmi per capire il significato di queste esperienze e eventualmente, di parlarne. Vorrei dire soltanto che oltre agli scrittori indiani, il viaggio a Torino è stato bello anche per incontrare autori come Tahar Ben Jalloun e Luis Sepulveda.

E, vi presento qui un articolo, pubblicato in parte sul quotidiano, La Stampa del 18 gennaio 2008, "Il Mahatma e il Mercato".
Le foto sbiadite del passato

Ero piccolo. Forse avevo cinque anni. Era la prima volta che visitavo il museo memoriale di Mahatma Gandhi, vicino a Rajghat dove lui fu cremato nel 1948, e dove sorge il suo samadhi, il luogo dove è divenuto tutt’uno con il creatore.

In quegli anni, lui era ancora una persona. Qualcuno che aveva vissuto come le persone normali. La storia dell’India indipendente non era ancora diventata la storia. Diversi personaggi di quella storia erano ancora delle persone in carne e ossa. Avevo visto Pandit Nehru, il primo ministro dell’India alla scuola, al quale avevo consegnato una rosa di benvenuto.

La mamma parlava di loro qualche volta. Raccontava del suo lavoro come segretaria di Maulana Abdul Kalam Azaad, uno dei leader musulmani moderati, membri del partito del congresso, i quali avevano deciso di restare in India, rifiutando l’idea di una patria basata sulla religione. Lui era diventato il ministro dell’educazione dell’India indipendente.

Lei parlava anche di quella casa dove abitavamo, che apparteneva ad un ricco musulmano haji, commerciante di rifornimenti ospedalieri, il quale aveva scelto di sfuggire in Pakistan con la sua famiglia. Quella casa dove le finestre della zenana, la parte della casa riservata alle donne, con schermi di legno finemente scolpiti permettevano alle donne della casa di guardare fuori senza essere viste. Parlava dei giorni sanguinosi della divisione dell’India e la pazzia omicida che regnava nel cuore degli uomini. Di come un giorno lei era entrata in una casa abbandonata per salvare una donna musulmana da un gruppo di uomini indù che la volevano violentare e del certificato di apprezzamento che aveva ricevuto dal Pandit Nehru per questo atto di coraggio.

Lei parlava anche di Bapu. Era così che chiamava il Mahatma. Bapu, papà. Parlava delle sedute a Birla Bhavan dove andava a ascoltare Gandhi e a cantare insieme a tutti gli altri le bhajan, le preghiere favorite del suo Bapu. Parlava di quel giorno quando Nathuram Godse aveva sparato e ucciso il suo Bapu. Parlava della sua preghiera favorita, Vaishnav jan to tane kahiyeji pir parayi janni re, "E’ lui l’uomo di Dio, soltanto colui che cerca di capire il dolore altrui".

Il museo del memoriale di Mahatma Gandhi era una struttura semplice e spoglia dove erano esposte tutte le cose personali di Bapu. Il suo bastone per camminare. I suoi occhiali con la montatura rotonda. Quelli che erano caduti per terrà quando gli avevano sparato e che si vedono un po’ storti sull’erba, nella foto di quando li avevano trovati. I suoi libri, la sua carta e la sua penna, un foglio di carta dove sono scritte alcune righe. Non aveva una calligrafia molto bella, avevo pensato, il mio maestro di calligrafia alla scuola gli avrebbe fatto riscrivere tutto da capo!

Ma l’oggetto che aveva catturato la mia immaginazione era il suo dhoti, il panno di khaadi bianco, tessuto a mano, che lui portava quel giorno, con le macchie del suo sangue. Guardavo quelle macchie marroni con macabra curiosità. Per me, erano quelle macchie che lo rendevano una persona vera più di qualunque altra cosa.

Il 30 gennaio di ogni anno alle 11,00 suonavano le sirene per ricordare il padre della nazione, Mahatma Gandhi, per ricordare quel momento tremendo del suo assasinio. Dovevamo tutti alzarsi in piedi e stare in silenzio per due minuti finché suonavano le sirene un’altra volta. Per molti anni dopo quella visita al museo di Gandhi, in quei momenti di silenzio, pensavo a quelle macchie marroni di sangue.

Fra qualche giorno saranno passati sessanta anni da quel lontano 1948. Chissà se suoneranno le sirene alle 11,00 per ricordare l’uccisione di Bapu?

Oramai il mondo è cambiato. Non ci sono più quelle lezioni dell’antica arte di calligrafia di hindi. Ognuno di noi aveva la sua takhti, una tavola di legno per la scrittura. Si applicava uno strato di gesso bianco bagnato sul legno ogni mattina per avere la superficie bianca sulla quale scrivere con il pennarello di bambù che dovevi bagnare nell’inchiostro nero. Mercato, competizione, progresso, sviluppo, crescita e pragmatismo, sono queste le parole in voga oggi.

Il ritorno del Mahatma
Non si può dire che l’India abbia dimenticato il Mahatma. Le sue foto continuano a adornare le aule giudiziarie e gli uffici governativi. E’ sua la faccia sulle banconote da 500 rupie, quelle si usano spesso per le bustarelle e per i pagamenti in nero. Sono più facili da nascondere. Se qualcuno vi parla di Gandhi mentre cercate di sbrigare qualche servizio, è possibile che lo faccia per ricordarvi che aspetta la mancia.

Per le elezioni non servono più le foto di Mahatma Gandhi, bastano quelle di Indira Gandhi. Ormai esistono delle generazioni cresciute dopo la morte di Indira Gandhi che non conoscono chi era lei, è inutile parlare a loro di Mahatma. Si parla di Mahatma Gandhi il 2 ottobre, il giorno della sua nascita, e il 30 gennaio, il giorno del suo martirio. Poi quando serve, si può tirare fuori la sua bandiera per parlare della forza della verità, o della non violenza, per subito ripiegarla e metterla nel dimenticatoio.

In questo contesto generale, nel 2006-07 all’improvviso il Bollywood, il cinema di Bombay, ha ripescato il Bapu dal dimenticatoio, con due nuovi film che parlavano di lui e l’hanno presentato alle generazioni che non lo conoscevano.

Lage raho Munna Bhai (Continua fratello Munna), il primo film uscito nella seconda metà del 2006 è la storia di Munna, un malavitoso di Bombay, il quale incontra un giorno il fantasma di Gandhi in una biblioteca. Munna è disperato, ama una ragazza, ma non sa come vincere il suo cuore. Il fantasma di Gandhi promette di aiutarlo a patto che Munna segue ogni suo consiglio. Il film ha ottenuto grande successo della critica e del pubblico, e ha fatto capire ai giovani, in maniera semplicistica, i messaggi di Gandhi sulla non violenza, sul dialogo e sulla verità.

Gandhi My Father (Gandhi, mio padre), il secondo film uscito nel 2007 è la storia vera dei tormentati rapporti tra Gandhi padre e il suo primogenito Harilal. Il film basato sull’autobiografia di Harilal Gandhi, affronta temi poco conosciuti anche alle persone che pensano di conoscere la figura del Mahatma. Il film ha avuto l’approvazione della critica ma è stato ignorato dal pubblico.

Grazie a questi due film la figura di Gandhi è tornata all’attenzione pubblica. Il museo memoriale di Gandhi ha dichiarato che il numero dei visitatori giornalieri è cresciuto a 2000 persone al giorno. I giornali hanno iniziato nuovi fumetti che parlano di Gandhi. Una radio ha lanciato un quiz sulla sua vita e un’altra ha organizzato una serie di laboratori sul significato pratico del suo messaggio nel mondo di oggi. Un’associazione ha proposto un programma per visitare i villaggi per aiutare le persone bisognose, ottenendo adesione di molti giovani volontari. La vendita dei libri sulla sua vita ha avuto un’impennata.

Gandhi e il mercato

E’ stato riconosciuto il valore del marchio Gandhi per il mercato.

Nell’India che tocca vertiginosi livelli di crescita economica, il mercato è sempre più importante, e il mercato dice che Gandhi ha alto valore commerciale. Serve per vendere l’immagine della nuova India emergente. Questa nuova immagine dell’India non parla di povertà, di carestie, di bidonville. Invece ripesca i valori antichi, come quelli di spiritualità, di yoga, guru e meditazione, e li mette insieme alla tecnologia informatica, ai call centre, all’economia in forte espansione. Quante macchine, quanti cellulari, quanti schermi ultrapiatti, quante lavatrici, tutto da vendere, numeri che mandano in fibrillazione le multinazionali che annusano l’odore dei guadagni.

E dove è Mahatma Gandhi in questa nuova India? Come dice Salman Rushdie, “E’ diventato astratto, fuori dalla storia, postmoderno, non più un uomo del suo tempo ma un concetto libero, uno dei tanti simboli culturali, un’immagine che puoi prendere in prestito, usare, deformare, reinventare secondo il caso e il momento …”.

La sua immagine è ora protetta e venduta da agenzia americana CMG Worldwide, la stessa che detiene i diritti sulle immagini di altre icone come Einstein, James Dean e Marilyn Monroe. Il messaggero della semplicità, austerità e autosufficienza sta incatenato nella piazza pubblica e si chiamano gli acquirenti al mercato degli schiavi. Lui può essere usato da qualunque per vendere di tutto. Ditte come Telecom Italia e Apple americana l’hanno già fatto. Il suo torso nudo, il suo dhoti di ruvido khaadi bianco tessuto a mano, i suoi occhiali con la montatura rotonda, il suo sorriso sdentato, la sua voce con l’erre moscia, sono tutte in vendita.

Dal suo messaggio si sceglie quello che va bene per il mondo di oggi. Quello che non va, si può semplicemente scartare. “Il mondo ha sufficienti risorse per soddisfare i bisogni di tutti, ma non può soddisfare l’ingordigia ne anche di uno”, lui aveva detto ed è diventato un simbolo da usare per la cultura del consumismo, quella di sfruttare, usare e buttare. Ha perso lui la battaglia contro le forze del mercato.

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15 gennaio 2008

giovedì 10 gennaio 2008

Lo scrittore

Quando sono stato presentato agli ospiti come “uno scrittore che vive in Italia”, sono rimasto scioccato per un po’. Ero a casa di Om Thanvi, responsabile di Jansatta, uno dei maggiori quotidiani nazionali in India. Tra gli ospiti c'erano diversi scrittori, artisti, musicisti. Qualcuno lo conoscevo già. Altri li conoscevo perchè avevo letto di loro nelle riviste indiane. Ogni volta che Om mi presentava a qualcuno sentivo una strana sensazione di piacere, disagio e senso di colpa.

Non volevo diventare uno scrittore. L’avevo deciso quando ero piccolo.

Forse avevo cinque anni quando scrissi un piccolo racconto per Parag, una rivista indiana per bambini. Il racconto parlava di un grande topo e di dolci laddu. L’avevo fatto vedere a una delle mie zie. Mi aveva detto: “Sei proprio bravo, diventerai uno scrittore come il tuo papà”. Allora forse non sapevo cosa volesse dire “essere uno scrittore”, ma mi erano piaciute le sue parole perché aveva detto “come il tuo papà”.

Eravamo circondati da scrittori e artisti. A partire dalla mia nonna, dalle mie zie e dai miei cugini. Ricordo la delusione della nonna quando, una delle riviste locali, le aveva rimandato indietro il suo racconto dicendo che non era adatto per la pubblicazione.

C’era anche un libro scritto dal nonno sul gioco dell'hockey. Avevo tutti questi manoscritti mai pubblicati.

Di tutte le persone che vivevano in quella casa perché il nonno aveva dato il suo manoscritto a me? E poi cosa è successo a quei manoscritti? Forse sono stati buttati via come carte stracce? O forse li abbiamo persi in uno dei traslochi?

Avevamo l’armadio pieno di libri. Non mi ricordo quando ho iniziato a leggerli. Libri di autori come Nanak Singh, Rangey Raghav, Krishen Chander, Mohan Rakesh e tanti altri. Non c’era un libro in quell'armadio che non avessi letto. Qualcuno di quei libri, letti quando avevo 6-7 anni, li ho ancora con me. Come il libro di racconti Dharti ki Beti (Figlia della terra) scritto da Soma Vera e pubblicato nel 1961.

Qualche volta,la sera, andavamo al coffee house di Connaught Place con mamma e papà. Oggi lì c’è la stazione della metropolitana di Delhi. Ci incontravamo con gli amici di papà. Quanto fumo di sigarette e quante tazze di caffè nero! Assistevo alle loro discussioni appassionate e infinite sulla lotta di classe, sulla difesa delle lingue indiane, sui poveri e sugli oppressi. La loro passione era coinvolgente, ma vedevo anche che erano tutti poveri, proprio come noi. Penso che sia stato li, in quel coffee house, che iniziai a credere che fare lo scrittore era un mestiere difficile.

Papà lavorava come responsabile di Jan, il mensile del partito socialista indiano. Ma questo non era lavoro per lui, era la sua passione, era la sua idealità. Inoltre scriveva qualche romanzo e tanti racconti, traduceva libri dall’inglese all’hindi, faceva il critico letterario. Scriveva sempre, ma, non guadagnava mai abbastanza. Neanche la mamma guadagnava molto come insegnante della scuola elementare. Non avevamo mai soldi sufficienti. Non sono mai andato a letto affamato, ma ero molto consapevole che bisognava stare attenti ad ogni centesimo.

Avevo due pantaloncini. In biblioteca, la signora mi aveva chiesto di non portare quelli pantaloncini, “Ti sono troppo stretti. Poi, non sei più un bambino, dovresti portare i pantaloni lunghi fino ai piedi.” Ma non ne avevo detto niente in casa perché sapevo che era un momento difficile e non c’erano soldi per comprare nuovi vestiti. E poi, un giorno mentre cercavo di recuperare la mia palla dal muro della chiesa davanti alla nostra casa, il mio pantaloncino bianco con orlo blu, si era strappato. Correva giù sangue dalla coscia dove il filo spinato mi aveva punto, ma il mio primo pensiero fu per mia mamma, come farà adesso? Dove troverà i soldi per comprare uno nuovo? Cosa porterò mentre mamma mi laverà l’unico pantaloncino rimasto?

Penso che era in quelli giorni che decisi che non avrei fatto mai lo scrittore. Non fu una decisione chiara e netta ma qualcosa che era maturato dentro di me, poco alla volta. Quando arrivò il momento delle iscrizioni alla scuola superiore, informai papà che mi ero iscritto ai corsi di scienza e biologia, perché avevo deciso di fare il medico.

Infatti, ho studiato medicina, ho lavorato come medico. Le parole non mi hanno mai lasciato, ho continuato a scrivere, ma non mi definisco uno scrittore. Un articolo per un libro o una rivista, un racconto, uno spazio mensile fisso in una rivista, parte del comitato editoriale di un’altra rivista - poco alla volta, lo spazio occupato dalle parole nella mia vita si è allargato, e continua ad allargarsi sempre di più. Ma la mia identità, come mi vedo dentro di me, non mi riconosce come scrittore. E si che ora sono grande, dovrei avere la capacità di superare paure infantili!

E’ per questo che quando Om mi aveva presentato come “scrittore che vive in Italia”, mi ero sentito strano.

Fra dieci giorni, il 18-19 gennaio 2008, vi sarà una manifestazione letteraria a Torino, organizzata da Fondazione Grinzane Cavour. Sono stati invitati circa 15 autori indiani. Alcuni di loro come M.J. Akbar, Shashi Tharoor, Tarun Tejpal, Anita Nair, Thrity Umrigar, sono nomi famosi. Altri come Lavanya Shanker, Altaf Tyrewala, sono nomi meno conosciuti, sono i nomi del futuro. Vi sono anche persone che scrivono in lingue indiane come Uday Prakash, Bhagwan Dass e Gayathri Murthy. Tra di loro, c’è anche il mio nome.

E di nuovo, ho questa sensazione strana. Sento un miscuglio di piacere, disagio e senso di colpa, quando penso al mio nome messo li, in quella lista tra gli “scrittori”.

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