domenica 10 aprile 2022

Raccontare le Caste

Ogni mese il nostro gruppo di lettura sceglie un libro da leggere e poi ci riuniamo per scambiare le nostre opinioni. Questo mi costringe a leggere dei libri che altrimenti eviterei.

Per esempio, il libro di questo mese (aprile 2022) è “La Treccia” scritto originariamente in francese da Laetitia Colombani e tradotto in italiano da Claudine Turla. Non penso che l'avrei cercato senza la spinta del mio gruppo.

La casta di uno dei personaggi indiani di questo libro gioca un ruolo importante nello sviluppo della sua trama, ma le descrizioni della sua vita hanno molti errori. In questo scritto voglio parlare di alcune delle difficoltà di raccontare le caste.

Le immagini usate in questo scritto sono di un gruppo emarginato che si occupa dei rifiuti nel nord-est dell'India, con il quale avevo lavorato alcuni anni fa.

La Complessità delle Caste

Penso che sarebbe meglio iniziare con qualche informazione sulla casta della mia famiglia, per darvi un’idea della complessità del tema. Miei genitori venivano da due parti diverse del subcontinente indiano e appartenevano a due caste diverse. Entrambi erano seguaci di Mahatma Gandhi. Mio padre, ancora giovane, aveva deciso di "uscire" dalla sua casta, rinunciando al cognome della famiglia e assumendo un cognome inventato, “Deepak” (lampada). Perciò formalmente non appartengo ad una casta specifica.

Questo ci porta alla mia prima spiegazione per le persone che si chiedono come mai l'India non riesce a superare questo sistema – le caste delle famiglie si esprimono attraverso i loro cognomi. Quindi, pensate a come si potrebbe far cambiare i cognomi ad un miliardo di indiani senza creare altri problemi burocratici?

Il sistema è anche incredibilmente complesso, perché si esprime attraverso i Jaati, i sottogruppi delle caste - ogni casta è suddivisa in centinaia di Jaati principali, ognuno dei quali suddiviso in numerosi sottogruppi e con una diversità di regole da osservare che riguardano soprattutto i matrimoni, il mangiare insieme e i rapporti sociali. Qualche volta, i gruppi ed i sottogruppi possono avere gli stessi nomi ma che occupano livelli molto diversi tra di loro nella gerarchia sociale in diverse parti del paese. È come un albero gigante con centinaia di tronchi, e ogni tronco con centinaia di rami e ramoscelli. Raccontare la vita di un sottogruppo delle caste è difficile anche per i narratori indiani, se non li hanno osservati o studiati da vicino.

Il secondo aspetto che complica tutto è che il sistema delle caste non si limita soltanto alle discriminazioni verso alcuni gruppi emarginati, il che potrebbe essere visto come un suo effetto collaterale, ma la sua funzione principale è quella di delineare le regole della vita sociale dei gruppi e per questo è valorizzato dalle comunità. Le caste, per centinaia di milioni di persone, rappresentano i legami con i loro clan. Per cui, non è realistico pensare all’eliminazione del sistema delle caste a breve termine, piuttosto, bisogna pensare a come eliminare le discriminazioni sociali legate ad esse. Con urbanizzazione i vecchi legami dei clan spariscono, così un giorno spariranno anche le caste, ma in tanto bisogna agire per eliminare il suo impatto negativo sulla vita delle persone.


Dopo questi chiarimenti, ora possiamo parlare del libro.

La Treccia di Laetitia Colombani

Il libro racconta la storia di tre donne in tre paesi diversi – Smita, una donna della casta degli intoccabili in India, Giulia che lavora nel laboratorio del padre in Sicilia, e Sarah, un avvocato in carriera in Canada. In questo scritto, mi soffermerò sul personaggio di Smita.

La storia di Smita, ha delle descrizioni molto intense ed emotivamente forti. Per esempio, l’autrice descrive in maniera molto vivida che cosa significa raccogliere gli escrementi delle persone con le mani nude o come si sente quando si va nei campi a catturare i ratti con le mani, per poi ammazzarli, cucinarli e mangiarli. Sicuramente l’autrice ha fatto delle ricerche approfondite e forse ha parlato con delle persone che conoscono il sistema delle caste e la situazione degli intoccabili. Tuttavia, è evidente che l’autrice non ha mai vissuto con loro o visto la loro vita da vicino.

Le Descrizioni Errate: Per esempio, partiamo dai nomi dei 3 personaggi della famiglia (Smita, Lalita e Nagarjun) – questi non sono nomi giusti per i personaggi nella situazione descritta nel libro, perché denotano un contatto con la cultura popolare e urbana. Se questa famiglia aveva un televisore o abitava in un centro urbano, i nomi di Smita e Lalita potevano starci. Invece, Nagarjun, è il nome di una divinità venerata nel sud dell’India e non sta bene in una famiglia ambientata nel nord. È come se una famiglia tradizionale in Sicilia ai primi del novecento avesse nomi come Walter e Elisabeth.

La descrizione del loro villaggio, la posizione del loro pozzo d’acqua, le descrizioni della loro capanna e delle preghiere al dio Vishnu, sono tutte sbagliate. I mestieri di Smita (raccogliere escrementi) e di Nagarjun (catturare ratti) appartengono a due gruppi diversi, i Bhangi e i Musahar, che normalmente non si sposano tra di loro perché hanno diverse collocazioni nella gerarchia delle caste. Questi sono alcuni esempi e il libro è pieno di dettagli errati riguardo la vita di Smita, che è descritta senza nessun riferimento al suo gruppo sociale, alle persone della sua casta che vivono nelle case intorno a lei.

Un lettore che non si rende conto di tutto questo può immergersi nella storia e lasciarsi trasportare dagli eventi. Invece per me questi errori erano come dei sassolini nella scarpa che ostacolavano la mia lettura.

Difficoltà di Scrivere delle Caste

Comunque come ho spiegato sopra, il sistema delle caste in India è complesso ed è difficile da capire per le persone che non sono cresciute dentro. Per cui, spesso gli autori e i giornalisti stranieri, anche quelli che vivono per anni in India, possono commettere degli errori quando ne parlano.

Per esempio, nella recensione del filmLa Tigre Bianca”, scritta da Piero Zardo e uscita sulla rivista “Internazionale”, iniziava con le seguenti parole: “Tratto dal romanzo di Aravind Adiga (Booker prize nel 2008), La tigre bianca racconta la parabola di Balram (Adarsh Gourav), un ragazzo di una famiglia poverissima del Rajastan. Balram è un giovane brillante ma la sua condizione sociale gli impedisce di ricevere un’istruzione e di nutrire ambizioni all’altezza della sua intelligenza. Del resto è così che funziona il sistema delle caste.

Quando avevo letto questa frase sul sistema delle caste, ero rimasto un po' perplesso perché nel libro, la casta di Balram non aveva un’influenza significativa sulla trama. Inoltre, avevo visto delle immagini del film dove il ragazzo lavorava in un ristorante o dove si sedeva al tavolo con il padrone. Entrambe queste immagini facevano pensare che la posizione del ragazzo nella gerarchia sociale non era di una casta bassa. Per cui, il sistema delle caste centrava poco con la sua situazione, centravano molto di più, la povertà, la classe sociale e le rigide gerarchie di classi che sono una parte fondamentale della società indiana. Allora perché Zardo aveva fatto riferimento al sistema delle caste?

Penso che i giornalisti e gli scrittori occidentali, quando guardano la povertà e l'esclusione in India, lo fanno soprattutto attraverso la lente delle caste, anche dove questa centra poco, perché associano la povertà economica esclusivamente all’appartenenza alle caste “basse”.


Visione Superficiale delle Caste

Il sistema delle caste in India è in grande evoluzione ed i rapporti di potere tra le diverse caste continuano a cambiare, soprattutto negli ultimi tre decenni. Continuare a pensare e vedere le persone che appartengono alle caste “basse” esclusivamente come vittime e senza capacità di lottare, è uno sbaglio comune.

Anche i giornalisti bravi ed esperti come Federico Rampini possono dimostrare di non capire questi cambiamenti. Per esempio, nel suo libro "L'Eta del Caos" (Mondadori, 2015), lui aveva scritto: “L'obiezione è come fa (India) a chiamarsi democrazia finché esistono le caste? ... La stortura indiana è enorme, macroscopica, innegabile. Le caste esistono da quando esiste la religione induista ...

Mettere in discussione la democrazia indiana perché esistono le caste dimostra una non conoscenza delle lotte politiche intraprese dalle cosiddette caste basse negli ultimi settant'anni. Loro hanno i loro partiti e più volte hanno vinto le elezioni in diverse regioni, hanno fatto parte dei governi a vario livello e più volte hanno occupato i ruoli di primo piano compreso quello del presidente della repubblica. Tutto questo non poteva accadere se l’India non era una democrazia.

Alla Fine

Il sistema delle caste è un mondo complesso che permea ogni strato della società indiana, soprattutto nei rapporti sociali. Nelle città il sistema ha perso molte delle sue funzioni discriminatorie e se uno ha i soldi, la sua casta potrebbe non avere nessun impatto sulla sua vita. Certo, può succedere che una persona benestante di una casta "bassa" non sia invitata a cena da un vicino di una casta più alta, ma le famiglie benestanti di qualunque casta possono avere come impiegati e collaboratori, le persone di tutte le caste.


Il governo indiano ha messo in atto un enorme programma di assistenza e di aiuti per le caste emarginate. Per esempio, questo programma prevede che una percentuale di posti siano riservati per loro nelle scuole, nelle università e nei luoghi di lavoro. Per accedere a queste agevolazioni servono i certificati di appartenenza alle specifiche caste. Secondo me, questi certificati rendono ancora più forte e radicato il sistema delle caste, ma i gruppi emarginati sono contrari a qualunque cambiamento in questo sistema. Per cui, non penso che il sistema delle caste in India potrà smettere di esistere entro breve.

Nei prossimi decenni, penso che le caste continueranno ad esistere come i clan, ma perderanno ulteriormente la loro capacità di emarginare gruppi di persone. La diffusione dei cellulari e dell’internet a basso costo, stanno arrivando anche nei villaggi indiani più lontani, e portano consapevolezza. Le ribellioni dei gruppi emarginati rimasti nei villaggi costringeranno a cambiare i vecchi mondi ed i vecchi modi di pensare delle persone.

Nota (26 luglio 2022): Ieri, 25 luglio 2022, signora Draupadi Murmu è diventata la quindicesima presidente della repubblica indiana. Signora Murmu appartiene alla tribù indigena dei Santali ed era nata in uno sperduto villaggio del distretto di Mayurbhanj nello stato di Odisha nel nord-est dell'India nel 1958. Aveva faticato a frequentare le scuole elementari perché il suo villaggio non ne aveva una. Aveva iniziato la sua carriera come un'insegnante delle scuole elementari. La sua famiglia vive ancora in quel villaggio sperduto. Nel sistema delle caste, i gruppi Adivasi, ai quali appartiene la signora Murmu, è in fondo alla gerarchia. Penso che per una persona come la signora Murmu diventare il presidente della repubblica indiana sia il trionfo della democrazia, ed è un segno di come il sistema delle caste sta cambiando, anche se molto lentamente.

lunedì 28 marzo 2022

Frammenti dell'India

Il libro “Il Viaggio: Finestre Italiane sull’India” (I Quaderni del Bardo edizioni, 2021) curato da Urmila Chakraborty, è un’antologia di scritti di persone che normalmente non appaiono nei libri. I loro scritti sono estratti di vita quotidiana che parlano dell’India.
Frammenti d'India di Urmail Charkaborty

Nell'antologia, non c’è nessuna pretesa di essere esaustivi e di voler raccontare tutto sull’India, ma sicuramente, troverete punti di vista e modi di raccontare molto diversi tra di loro.

È un libro per le persone che amano l’India o almeno che si sentono attratte dal suo fascino. Sono storie di persone che sono arrivate in India con diverse motivazioni - alcuni avevano scelto di andarci, altri vi sono arrivati quasi per caso, portati dalle correnti della vita. Mentre lo leggevo, mi è venuto in mente uno scambio di battute dal libro “Vita di Pi” di Yann Martel, quando il papà di Pi dice, “Lasceremo l’India, navigheremo come Cristoforo Colombo!” e Pi gli risponde leggermente stizzito, “Ma Cristoforo Colombo stava cercando l’India!

Penso che alla fine, quali scritti del libro vi piaceranno di più, dipenderà molto dai vostri gusti personali. Comunque, se vi interessa l'India, penso che sicuramente troverete qualcosa che ve la farà conoscere meglio e che vi sorprenderà.

Andare oltre gli stereotipi

Nell’immaginario popolare italiano, la prima parola che viene in mente quando si parla dell’India è la sua dimensione spirituale, collegata ai suoi antichi testi sacri e le pratiche come lo yoga e la meditazione. Questa dimensione spirituale è rinforzata dalle idee di non-violenza di Mahatma Gandhi, le poesie di Rabindranath Tagore, gli scritti di Herman Hesse e le opere di Madre Teresa.

Fino a qualche decennio fa, vi era un secondo aspetto legato all’India che era una parte fondamentale dell’immaginario italiano - il mondo dei pirati e dei thugs creato dai libri di Emilio Salgari.

Invece oggi, con la globalizzazione e le nuove tecnologie, i libri di Salgari hanno perso la loro presa, mentre il fascino dell'India come una metà spirituale si è rinforzato. I famosi guru indiani, da Mahesh Yogi (il guru dei Beatles negli anni sessanta) a Sai Baba e Bhagawan Rajneesh (Osho), continuano a trovare nuovi seguaci italiani. I libri di Tiziano Terzani hanno contribuito a rafforzare questa immagine dell’India. Per esempio, nel suo libro “Un Altro Giro di Giostra”, Terzani aveva scritto “Chi ama l'India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. È sporca, è povera, è infetta; a volte è ladra e bugiarda, spesso maleodorante, corrotta, impietosa e indifferente. Eppure, una volta incontrata non se ne può fare a meno.”

Negli ultimi decenni, l’immagine dell’India è stata arricchita da un aspetto nuovo - quello legato ai suoi ingegneri e gli esperti di informatica. È questo l'aspetto che sta dietro la storia personale di Urmila Chakraborty, la curatrice del volume e che appare anche in uno degli scritti.

Un libro sull’India vista dagli italiani che non focalizza sulla sua dimensione spirituale è una novità, come prende nota Stefano Caldirola, uno degli autori che nel libro racconta la sua esperienza in una città indiana provinciale: “Molte persone che conoscevo si erano avvicinate all’India perché attratte da diverse scuole di pensiero filosofico o religioso nate nel paese. Davano perciò per scontato che il fascino che l’India esercitava su di me fosse dovuto ai loro stessi motivi: un intimo interesse di natura spirituale verso pratiche o filosofie, sviluppate da ciascuno in un modo personale e articolato. Il pensiero che io fossi interessato allo studio dell’India “solo” perché affascinato dalla straordinaria diversità culturale e sociale del contesto indiano appariva non sfiorarli nemmeno.”

Le voci che compongono l’antologia

Il libro presenta un pot pourri di voci che variano da uno studente universitario che segue una ricerca in un’università indiana alla ragazza che va a cercare la famiglia della sua nonna di origine indiana, dalle persone che lavorano per i progetti di cooperazione a quella che decide di vivere in un villaggio e di aprire un'agenzia di viaggi molto particolare, dalle persone che si interessano di danza classica indiana, agli artisti in cerca di nuove ispirazioni e alle persone che vogliono apprendere la sua musica tradizionale.

Nel libro ho ritrovato più di qualcuno che conoscevo già, anche se non sempre conoscevo le circostanze che le avevano fatto avvicinare all’India - leggere le loro testimonianze è stato particolarmente gradevole.
Frammenti d'India di Urmail Charkaborty - Nuri Sala

Leggere questo libro era come viaggiare in un treno di notte e di guardare fuori dal finestrino, quando la luce del treno illumina brevemente un pezzo di un mondo nuovo. Uno degli aspetti più belli del libro sono i disegni di Paola Scialpi, che anche con una parsimonia di colori, rendono vive le diverse sfaccettature dell'India.

Il nuovo modo di raccontare l’India

Fino a qualche decennio fa, conoscevamo i mondi lontani tramite i racconti di giornalisti e scrittori. Il giornalista Ugo Trambali, nella sua introduzione al volume, lo spiega con le seguenti parole: “La fortuna del giornalista è di poter entrare in profondità nel paese che ha il compito di raccontare: almeno dei giornalisti della mia generazione. Oggi i quotidiani non hanno più soldi per mandare in giro i loro inviati per fare reportages. A causa di questo, col tempo hanno perso interesse e la curiosità necessaria per commissionarli.”

Invece oggi con l’internet e con le App come YouTube e Instagram, ogni viaggiatore può raccontare e condividere con il mondo la sua visione della realtà. Le persone interessate, possono avvicinarsi alla cultura indiana in molteplici modi senza il tramite di un professionista. Soltanto in un secondo momento, quando vogliono approfondire qualcosa, esse cercano un libro. Gli scritti del libro invece stanno già con un piede nel nuovo mondo, servono soprattutto per stuzzicare la curiosità ed a introdurre frammenti di mondi spesso nascosti ai viaggiatori comuni.
Alla fine

Fa bene vedere il proprio paese attraverso gli occhi degli altri. Le voci che parlano attraverso le pagine di questo libro, non sono quelle che hanno fatto ore di pratica per cantare in un coro melodioso. Anzi, sono spesso voci di persone che non sanno cantare o che non hanno mai cantato prima se non nella propria solitudine. Invece, qui si trovano tutte a dover cantare insieme. Il risultato comprende qualche nota discordante, ma anche quella ha una sua bellezza.

Ho molti amici italiani che amano l’India. Molti di loro hanno le loro storie emozionanti da raccontare sulle proprie esperienze. Mentre leggevo il libro, più volte ho ricordato loro. In questo senso, leggere questo libro era anche un viaggio nei ricordi delle persone con le quali ho condiviso una parte del mio cammino.
Frammenti d'India di Urmail Charkaborty - Mariapia Michelon e Vittorio Tonnon

Nota: Per ordinare il libro dal sito di iQdB Edizioni di Stefano Donno

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lunedì 14 marzo 2022

I Neanderthal Indiani

Lo storico olandese Rutger Bregman nel suo libro “Una nuova storia (non cinica) dell’umanità” (Feltrinelli, 2020) propone una tesi alternativa del perché gli esseri umani e soprattutto la nostra specie, Homo sapiens, è diventata la predominante sulla terra. Secondo lui, l'ascesa degli Homo sapiens è dovuta al fatto che sono fondamentalmente buoni, e che danno importanza alla convivenza sociale pacifica e all'amicizia.
Neanderthal nella mitologia India - Immagine di S. Deepak

Bregman parla anche del lungo periodo di convivenza di diverse specie umane per almeno una decina di migliaia di anni. Mentre leggevo questa parte del libro, mi sono chiesto se i vari popoli potevano aver conservato un ricordo di questa convivenza nei loro miti e leggende? Questa riflessione mi ha portato ad alcuni antichi testi indiani. Questi testi sono parte di una tradizione popolare vivente, che vengono letti e rappresentati ancora oggi in diversi modi durante le festività indiane.

I Miti e le Storie dei Popoli Antichi

Gli studi genetici hanno dimostrato che tutti noi abbiamo una piccola percentuale di geni di altre specie umane nei nostri DNA, il che significa che vi è stata qualche mescolanza tra le specie.

Non tutti i popoli hanno avuto una continuità delle loro culture orali. Per esempio, l’arrivo di ebraismo, cristianesimo e islam ha introdotto nuovi elementi che hanno sostituito le vecchie storie conservate nelle culture orali. Alcune antiche storie, rituali e pratiche sono state conservate ma sono anche state modificate in alcuni loro aspetti per diventare parte delle nuove credenze.

Il colonialismo e il proselitismo hanno sostituito molte delle antiche storie e leggende in Africa e America latina. Invece in Asia, anche se le nuove credenze sono state introdotte, molti popoli sono riusciti a conservare le loro antiche usanze e storie, anche se in alcuni paesi come Russia, Cina e Vietnam, il comunismo ha agito specificamente contro le antiche usanze e credenze con simili effetti.

In fine oggi, la cultura globalizzata dominata dal consumismo continua ad avere simile effetto di farci ignorare le antiche storie, o di vederle come qualcosa di arcaico e retrogrado, perciò da dimenticare. Fortunatamente, allo stesso momento, oggi lo sviluppo delle nuove tecnologie offre molte possibilità ai singoli di conservare e diffondere quelle antiche conoscenze.

Non possiamo prendere letteralmente i miti e le legende dei popoli come le descrizioni dei fatti realmente accaduti, perché questi sono sicuramente stati modificati e rielaborati più volte lungo i millenni. Tuttavia, forse alcuni di essi conservano un nocciolo di informazioni storiche reali. Un esempio della conservazione delle informazioni tramite la storia orale è quella delle Linee dei Canti (Song lines) dei popoli Aborigeni in Australia. Questi canti possono coprire migliaia di chilometri e conservare informazioni molto complesse e dettagliate sulla geografia, sull’accesso all’acqua e sugli eventi storici.

Cultura Orale in India

India è un paese con una tradizione di cultura orale profondamente radicata. Quando l’India è diventata indipendente 70 anni fa, soltanto il 12% della popolazione sapeva leggere e scrivere e la cultura orale era predominante. Ancora oggi, la cultura orale rimane una sua parte fondamentale soprattutto in alcuni suoi aspetti legati alla religione.

Per esempio, alcuni anni fa, in un documentario della BBC del regista Michael Woods intitolato "The Story of India", vi era una parte che riguardava un gruppo di Bramini del Kerala che cantavano una preghiera in un misto di suoni apparentemente senza senso, che assomigliavano ai canti degli uccelli. Loro non erano in grado di spiegare il significato di quella preghiera ma la conservavano fedelmente come parte della tradizione. Il documentario ipotizzava che quel canto poteva conservare i suoni rituali degli antichi sciamani dai tempi della preistoria.

Gli Antichi Libri dell’Induismo

I libri sacri più antichi della tradizione induista si chiamano i Veda (letteralmente “Vedere”). Questi fanno parte della tradizione chiamata Shruti (Parole udite).

Il secondo gruppo di libri sacri sono i Purana (gli antichi) che fanno parte della tradizione chiamata Smriti (Parole ricordate).

Un terzo gruppo di libri sacri sono le storie cantate o le storie in versi. Vi sono due testi importanti in questo gruppo, Mahabharata (Il grande India) e Ramayana (Storia di Rama). Questi due testi fanno parte della tradizione chiamata Itihasa (Ciò che è successo).

Ho pensato che alcuni elementi di Ramayana e Mahabharata, e alcune storie raccontate nei Purana potrebbero riguardare i rapporti tra gli Homo sapiens e le altre specie umane. Ovviamente le mie sono soltanto delle speculazioni perché non vi sono elementi storici che possono provare queste tesi.

La Tribù dei Kapi in Ramayana

In Ramayana, Kapi è il nome di una tribù che vive nelle foreste. Nella cultura popolare questa tribù è rappresentata da esseri un po’ umani e un po’ scimmie. Bali, Sugriva, Hanuman e Angad sono alcuni personaggi Kapi, che giocano un ruolo importante nella storia di Ramayana, soprattutto Hanuman, che è considerato un essere divino e ha molti seguaci in India.
Neanderthal nella mitologia India - Immagine di S. Deepak

Nella mitologia, Hanuman è il figlio di Pavan, il dio del vento. Lui può saltare molto in alto, è veloce, può coprire grandi distanze e conosce le piante medicinali. Angad, un altro personaggio Kapi di Ramayana, è famoso per la sua grande forza. Penso che i Kapi possono rappresentare una delle specie umane con i quali gli Homo sapiens avevano convissuto.

I Rakshasa in Ramayana

Una parte di Ramayana è ambientata nell’isola di Sri Lanka, e descritta come il regno di un altro gruppo di esseri chiamati i Rakshasa, i quali sono alti, forti e molto intelligenti. Ravana, il re dei Rakshasa, è considerato un grande saggio, un Re-Bramino dei Rakshasa, anche se svolge il ruolo del cattivo nella storia. Lui è rappresentato da un essere con dieci teste, che simboleggiano la sua grande intelligenza. Forse i Rakshasa potevano essere un'altra specie umana?
Neanderthal nella mitologia India - Immagine di S. Deepak

Anche il Mahabharata ha alcune descrizioni dei popoli che vivono nelle foreste e che sono descritti come altri gruppi di umani, diversi dai protagonisti principali del libro. Per esempio, in questo testo, Bhima, uno dei protagonisti principali, si sposa con Hidimba, una donna della foresta e ha un figlio con lei. La città di Manali nelle montagne a nord di Delhi, ha un famoso tempio dedicato a Hidimba. 

I Miti nei Purana

I Purana raccontano le storie delle antiche famiglie nell'India preistorica. In queste storie, i re degli umani si chiamano i Manu. Vi sono diversi altri personaggi non-manu in queste storie, per esempio i gruppi conosciuti come Asura, Detya, Danava e Rakshasa, che potrebbero essere riferimenti alle altre specie umane. Alcuni di questi gruppi sono descritti con simili nomi anche nei testi Avesta, gli antichi libri sacri della Persia (odierno Iran), dai seguaci di Zarathustra.

Nei racconti dei Purana, i rapporti tra i Manu e gli altri gruppi iniziano spesso come parenti (per esempio, sono i figli dello stesso padre con due madri diverse). Inoltre, vi sono molte storie di matrimoni misti tra di loro. Poi con tempo, con alcuni di loro nascono le rivalità che qualche volta sfociano in guerre. Per esempio, nella storia di Shukracharya, il capo dei Detya, lui è considerato un grande saggio e l’insegnante dei Manu, ma dopo qualche generazione, alcuni suoi discendenti diventano i rivali dei Manu e le due fazioni hanno conflitti.

Conclusioni

Mi piace molto la premessa del libro di Rutger Bregman che l'Homo sapiens è diventata la specie dominante perché erano gli uomini buoni che davano più importanza ai rapporti sociali che alle guerre. Non ho ancora finito di leggere questo libro e sono curioso di conoscere come Bregman spiega l’accadere degli eventi come l’olocausto, le guerre di religione e la tratta degli schiavi da parte degli uomini "fondamentalmente buoni".

Mi piace pensare che l’Homo sapiens dal cuore gentile era spesso buono anche con le altre specie umane e che le antiche culture orali hanno conservato la memoria di questa convivenza nei loro miti e leggende. Penso che la cultura orale indiana è una delle poche che oggi può vantare di una tradizione ininterrotta da almeno qualche migliaia di anni. Non so se i personaggi di Ramayana e dei Purana descritti sopra fanno effettivamente riferimento a quella convivenza, ma mi piace pensarlo.

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venerdì 21 agosto 2020

I Significati della Danza

Danza è arte. È un modo di illustrare emozioni, soprattutto l'emozione della gioia. È un modo di esprimersi, un linguaggio. È cultura, tradizione e anni di lavoro. È un modo di comunicare con il divino, è un modo di esprimere il divino. Danza può essere tutto questo e molto altro.


Per la Giornata Internazionale della Danza, venite con me per un breve viaggio nel mondo della danza.

I Primi Ricordi

I miei primi ricordi della danza risalgono a quando avevo 6-7 anni e con mia sorella più giovane andavo alla scuola d'arte dove lei studiava la danza Kathak e io la pittura. Per alcune settimane, la scuola era rimasta senza il suo insegnante di pittura e così non avevo lezioni e stavo li a guardare le lezioni di danza di mia sorella.

La danza di Kathak assomiglia la danza spagnola, flamenco, per l'importanza che dà al battere dei piedi per creare un ritmo. In flamenco, i danzatori portano le scarpe con i tacchi che li aiutano a suonare il ritmo sul pavimento. Invece in kathak, i danzatori hanno i piedi nudi e un nastro con dei campanellini avvolto intorno alle caviglie, così il ritmo battuto sul pavimento è accompagnato da quelli dei campanellini (Ghungru).

Il Kathak può essere di due tipi - quello che racconta una katha (storia), accompagnato da bhava (espressioni) e mudra (gesti); e quello astratto che esprime danza pura senza una storia.


Kathak fa parte delle danze classiche indiane e ciò significa, che i ritmi dei piedi, le espressioni e i gesti sono tutti codificati, e i danzatori devono esprimersi eslusivamente tramite essi. Il suo ritmo di base ha 4 battiti e inizia con il piede destro - sinistro - destro - sinistro. Il successivo ritmo di 4 battiti inizia con il sinistro. In questo modo ogni quarto battito è doppio. Per capire meglio il ritmo di base di Kathak, potete guardare un breve video su Youtube.

Dopo qualche settimana di guardare mia sorella che imparava questo ritmo, l'avevo imparato anche io. Ripeterlo con i piedi, ancora oggi, risveglia dentro di me il ricordo di quei giorni di 60 anni fa. Per questo penso che danza è anche nostalgia.

Danza è Libertà

L'anno scorso (2019), un sabato sono uscito per andare in giro a Rio de Janeiro. Molti musei di Rio sono situati di fronte al mare. Dopo aver visitato la bella mostra di Ai Wei Wei, sono andato al museo dell'arte contemporanea. La zona di fronte al mare era piena di giovani di qualche scuola che si facevano fotografare con le toghe nere e capelloni per aver conseguito la laurea. Girai tra di loro per un po', prima di entrare in museo.

Finita la visita al museo al primo piano, sono sceso giù e mi sono trovato di fronte a gruppi di ragazzi che facevano le prove di danza dall'altra parte del vetro. Uno dei gruppi più bravi aveva molti ragazzi transgender. Mi sono seduto su una panca per guardare le loro prove. Era un'esperienza indimenticabile.

Penso che in Brasile, l'accettazione popolare dei ragazzi transgender è molto migliore che nel resto del mondo e forse hanno opportunità nel mondo di arte e moda, che non hanno in molti altri paesi del mondo. Ho visto il gruppo di danza composto da ragazzi transgender in India e so che devono lottare contro forti pregiudizi sociali.



Danza è Cultura

Una delle mie più belle esperienze di danza di strada sono state a Bologna. Intorno al 2004-05, un gruppo di giovani legati all'ambiente universitario aveva iniziato "Par Tot", una festa di strada. Per un sabato di giugno, la città si trasformava in un vivaio brulicante di colori, costumi, ritmi e suoni. Per prepararsi per la parata, i laboratori per imparare le danze e a confezionare i costumi iniziavano 2-3 mesi prima. La festa annuale è andata avanti fino al 2013, e ogni anno la partecipazione popolare cresceva, con gruppi provenienti da tutta l'Europa.



L'Associazione Oltre ... che organizzava la parata Par Tot ha cercato di continuare, ma forse la festa era diventata troppo grande per essere sorretta solo sulle spalle di giovani e meno giovani volontari. Non so bene tutti i motivi perché non hanno potuto continuare, ma mi dispiace molto che non si fa più. Penso a quella festa come un momento di grande vitalità culturale, un evento che poteva dare un'identità unica a Bologna, un po' come l'OktoberFest di Monaco, richiamando persone e gruppi da tutto il mondo.



Insieme a ParTot, per alcuni anni il Comune di Bologna aveva dato via ad altre iniziative culturali legate alla danza, come la Giornata Internazionale della Danza celebrata sulle strade e nelle piazze della città. Penso che erano gli anni del sindaco Cofferati. Invece negli ultimi anni, mi sembra che la città ha privilegiato eventi musicali.

Danza e il Sacro

Qualche anno fa, ero a Kannur, nel nord del Kerala nel sud dell'India. Un giorno andai a vedere la celebrazione di Theyam in un villaggio. Theyam è un evento di preghiera annuale organizzato dalle famiglie benestanti di questa zona. L'evento è organizzato dentro il bosco sacro della famiglia - un pezzo di terreno considerato sacro, spesso vicino ad un fiume o un laghetto, dove le famiglie hanno un piccolo tempio privato e dove è vietato tagliare gli alberi. La celebrazione dura 2-3 giorni e va avanti senza interruzioni, durante il quale un gruppo di persone vestono i panni di diversi dei indù, danzano davanti al tempio e benedicono le persone e le famiglie.



Tutti sono benvenuti alla celebrazione di Theyam. Spesso folle di persone dai villaggi circonstanti arrivano alla celebrazione per venerare i dei e guardare le loro danze sacre.

Questo è solo uno degli esempi del legame tra la danza e il sacro in induismo. Molte danze classiche dell'India - Kathakkali, Bharatnatyam, Mohiniattam e Odishi, sono legate ai templi e agli specifici momenti religiosi, anche se sempre più spesso, è possibile vederli come spettacoli fuori dai contesti religiosi.

Conclusioni

Mi piacciono tutti i tipi di danze. Amo sentire il ritmo dei tamburi e ammirare i danzatori. Sento un po' di invidia per loro perché non sono capace di lasciarmi andare in pubblico e mi sento goffo. Forse per questo sono così affascinato da loro! Spero che vi sia piaciuto questo piccolo viaggio nel mondo della danza.



lunedì 10 agosto 2020

Per Salvare i Bambini

Qualche giorno fa rimasi esterrefatto dalla pubblicità in tv di un’associazione che si occupa dell’infanzia nel mondo. Si vedevano immagini dei bambini africani piccoli gravemente malati e denutriti mentre una voce parlava della siccità nel loro Paese e chiedeva contributi per portare aiuto a queste popolazioni.

Conosco il mondo delle associazioni di volontariato, in Italia e a livello internazionale, da circa 35 anni. Per circa tre decenni ho lavorato con AIFO, un’associazione nazionale con sede a Bologna. Per cui ho seguito da vicino i dibattiti sulle esigenze della raccolta fondi e il diritto di rispettare la dignità delle persone e delle popolazioni con le quali lavoriamo.



Voglio parlarvi di questi dibattiti e delle scelte fatte da alcune associazioni di volontariato in Italia sull’uso della pubblicità.

Persone da Salvare?

Fino a qualche decennio fa l’uso di simili immagini era considerato normale. Nella rivista e nel materiale pubblicitario di AIFO spesso si usavano immagini dei malati di lebbra con gravi disabilità. Io sentivo un senso di fastidio quando guardavo quella pubblicità. Da una parte, parlavamo della solidarietà e della carità, dei diritti umani e della dignità delle persone e poi usavamo le immagini più brutte che potevamo perché avrebbero fatto colpo sui potenziali donatori e avrebbero aumentato le donazioni.

Almeno in parte, il mio senso di fastidio era dovuto anche al fatto che mi sentivo colpito in prima persona, perché l’India era il Paese con il più alto numero dei malati di lebbra e spesso quelle immagini riguardavano l’India. È vero che l’India aveva molti milioni di poveri; e nonostante il grande progresso di queste ultime decadi tutt’ora ne ha, anche se meno di prima. Ma vi era qualcosa fra i nostri proclami e quella pubblicità che stonava.

Primi Dibattiti sull’Uso della Pubblicità

Penso che le prime discussioni serie sulle immagini e sui messaggi nelle associazioni umanitarie siano iniziate negli anni della grande crisi in Corno d’Africa. La grave siccità in Etiopia intorno al 1984-85 aveva visto migliaia di foto simili nei giornali e telegiornali di tutto il mondo. Forse vi ricorderete la terribile fotografia del bimbo morente con l’avvoltoio in attesa seduto dietro, l’emblema di una tragedia che scosse il mondo.

Quelle immagini avevano fatto nascere molte discussioni, non solo dentro le associazioni ma anche nelle nostre piattaforme comuni. Negli anni Novanta avevo partecipato in molte discussioni anche nelle federazioni europee e internazionali. In alcune discussioni parteciparono anche i rappresentanti dei “beneficiari” degli interventi e delle associazioni di volontariato nei Paesi meno sviluppati, i quali fecero presente che quel tipo di pubblicità era contro la dignità delle persone e a volte vanificava i risultati dei nostri interventi. Per esempio: da una parte lamentavamo i pregiudizi e promuovevamo interventi di sensibilizzazione, dall’altra parte – con immagini e messaggi – fomentavamo gli stessi stereotipi.

Risultato di Quelle Discussioni

Eravamo giunti alla conclusione che l’uso di simili immagini e messaggi era in contrasto con i nostri obiettivi. In AIFO e nelle diverse associazioni internazionali che lottano contro la lebbra decidemmo di non usare più foto “forti” di persone con gravi disabilità. Infatti sono circa 20 anni che in AIFO non si utilizzano e qualche volta – quando ho voluto usarne una per illustrare le disabilità e le complicazioni che possono insorgere se le persone non vengono curate in tempo – ho dovuto limitarmi alle immagini “soft”.

Per quanto riguarda i minori nel 1989 è arrivata la Convenzione Internazionale sui Diritti dei Bambini. L’articolo 16 di questa Convenzione riguarda il rispetto della privacy. L’articolo 34 chiede ai governi di proteggere i bambini dallo sfruttamento mentre l’art. 36 demanda ai governi di salvaguardare i bambini da tutto ciò che li danneggia. Infine l’articolo 39: i bambini che hanno sofferto diverse forme di violenza e negligenza dovrebbero essere aiutati a recuperare la loro salute, la dignità e l’autostima.

In Italia la firma della Convenzione aveva innescato molte discussioni. Infatti, La Carta di Treviso era stata firmata il 5 ottobre 1990, per l’iniziativa della Federazione Nazionale della stampa, dell’Ordine dei Giornalisti e di “Telefono Azzurro”. La Carta di Treviso regolamenta il rapporto fra due diritti-doveri costituzionalmente garantiti: esercitare la libertà di informazione e proteggere un cittadino al di sotto dei 18 anni nel suo sviluppo, garantendo una corretta formazione.

Nel 2006 a livello europeo la confederazione delle associazioni umanitarie CONCORD ha deciso un Codice di Condotta sulle Immagini e sui Messaggi nelle strategie di comunicazione pubblica. Questo Codice chiede che la scelta delle immagini e dei messaggi rispetti 3 princìpi fondamentali: la dignità delle persone coinvolte, l’uguaglianza di tutti i popoli e il bisogno di promuovere un trattamento equo, solidarietà e giustizia.

Pubblicità sui Bambini Gravemente Malati

Questa pubblicità è di Save the Children Fund (SCF) Italia. Devo dire che durante i miei anni di lavoro in AIFO più volte ho collaborato con la SCF inglese e ho appreso molto da loro, per esempio nel campo dell’educazione inclusiva. Ho ammirato la dedizione e impegno di diversi colleghi che lavorano per la SCF. So anche che SCF era uno dei motori dietro l’approvazione della Convenzione sui diritti dei bambini. Forse è per questo che vedere quella pubblicità, secondo me contraria ai princìpi fondamentali che segue SCF, mi ha così turbato.

Nei telegiornali spesso vedo che i volti dei minorenni sono resi sfuocati e invisibili, ma quelle misure valgono soltanto per gli italiani. I bambini africani nella pubblicità di SCF Italia non hanno simili diritti? Anche se un simile uso delle immagini dei bambini può essere legale perché l’opinione pubblica non condanna questo tipo di sfruttamento?

Il Garante per i diritti dei minori cosa dice di questa pubblicità? Nel 2017 un gruppo di lavoro guidato dall’Autorità garante per l’infanzia e adolescenza aveva elaborato un documento sulla tutela dei minorenni nel mondo della comunicazione. Questa tutela copre anche i bambini africani usati nella pubblicità?

All’inizio pensavo che soltanto SCF-Italia adottasse questo tipo di strategie per la raccolta dei fondi ma una ricerca su internet ha fatto emergere simili preoccupazioni anche in altri Paesi. Per esempio un articolo uscito nel 2015 dal titolo “A quale punto la pubblicità per la raccolta fondi supera i limiti?” parlava di simili preoccupazioni riguardo la pubblicità di SCF inglese e chiedeva se «la porno-povertà era tornata». L’articolo prendeva atto che «le immagini che sfruttano i poveri stanno tornando nelle campagne di raccolta fondi».

Conclusioni

Il mondo delle associazioni di volontariato italiane era molto ricco e aveva le radici nelle comunità locali. Insieme a centinaia di gruppi parrocchiali, le associazioni come Mani Tese, Cuamm-Medici con l'Africa e AIFO avevano molte offerte e progetti. Negli ultimi 10-15 anni, gradualmente questo mondo è andato in crisi con un calo delle offerte. Molte piccole associazioni umanitarie hanno dovuto chiudere.

Non è successo solo in Italia ma in tutta l’Europa. Forse per questo alcune associazioni europee e americane più forti sono diventate internazionali e hanno aperto i loro uffici in diversi Paesi. Questi hanno più risorse e possono organizzare campagne di comunicazione molto efficaci per la raccolta dei fondi. Save the Children Fund è tra queste. Forse è l’unico modo per loro di continuare a portare avanti le loro attività?

Devo dire che è deprimente dopo tutte le discussioni, convenzioni e linee guida, tornare a dove eravamo partiti!

mercoledì 15 gennaio 2020

Il Tempio di Sabarimala e la Parità di Genere

 Alla fine di settembre 2018, la Corte suprema in India ha deciso che il divieto per le donne in età fertile di entrare e pregare nel tempio di Sabarimala – situato nello stato di Kerala nella punta sud dell’India – era discriminatorio e l’ha cancellato. Questo articolo è una riflessione su questa decisione e sul suo significato per la parità di genere. Questo articolo è uscito sul sito Bottega del Barbieri.



Decisione della Corte Suprema Indiana

La decisione sull'entrata delle donne nel tempio di Sabarimala è stata presa da un comitato di 5 giudici, composto da 4 uomini e una donna. Mentre i 4 giudici uomini erano favorevoli a questa decisione, l’unica donna del gruppo era contraria alla decisione perché non vedeva la questione pertinente alla parità di genere.

Da allora sono iniziate le proteste dei “fedeli” – comprese centinaia di migliaia di donne – che hanno bloccato ogni tentativo di entrata di donne nel tempio. Anche i due partiti nazionali, BJP e Congresso, si sono espressi contro mentre il governo dello Statale (guidato dal Partito Comunista) ha sostenuto la sentenza.

All’inizio di gennaio 2019 – alle 3 di notte – due attiviste, scortate dalla polizia, sono entrate nel tempio e hanno girato un video della loro visita, provocando nuove proteste dei fedeli.

Questa storia ha focalizzato l’attenzione sul ruolo delle istituzioni governative nelle riforme religiose in India.

La particolarità del tempio di Sabarimala: Il tempio di Sabarimala è dedicato al dio Ayappa molto venerato nel sud dell’India. Vi sono almeno 40 altri templi più o meno famosi per Ayappa nei quali non vi sono divieti contro la visita delle donne. Il veto esiste soltanto per il tempio di Sabarimala dove, secondo il mito, il dio vive la fase celibe della sua storia, quando lui cercava di mantenere il brahamcharya, ciòè, il celibato.

In generale, nell’induismo non vi sono divieti contro l’entrata delle donne nei templi, anche se esistono alcuni altri luoghi sacri in altre parti dell’India dove le donne non possono entrare e altri dove il divieto riguarda gli uomini.

I fedeli del tempio di Sabarimala dicono che le donne che vogliono entrare nel tempio evidentemente non credono nel mito di Ayappa e non vogliono rispettare il suo desiderio del celibato: sono soltanto attiviste che la vedono come una questione di principio.

Promuovere le riforme religiose: Per secoli le consuetudini, spesso con il sostegno delle religioni, hanno dettato i comportamenti delle società. L’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani dalle Nazioni Unite nel 1948 ha creato un nuovo metro per misurare queste consuetudini. In molti Paesi la crescente consapevolezza verso la violazione dei diritti umani ha stimolato i governi ad adottare nuove leggi che andavano contro quanto sostenevano le autorità religiose.

Riformare le religioni tramite le leggi e tramite le sentenze dei tribunali è particolarmente importante in due situazioni:

(a) Quando vi è un rischio all’indennità fisica e alla vita delle persone: l’antica pratica di sati in India secondo la quale le vedove potevano essere bruciate vive insieme ai loro defunti mariti, rientrava in questa categoria: la pratica fu vietata nel 1829 dall’allora governo coloniale inglese in India. Oggi, la mutilazione genitale femminile, ancora praticata in alcuni Paesi, è un altro esempio. Invece cosa dire della circoncisione maschile praticata su bambini ebrei e musulmani?

(b) Quando vi è una discriminazione sistematica contro alcuni gruppi di persone legata al genere o ad altre caratteristiche (come le caste in India). Dunque orientamento sessuale e appartenenza a certe religioni, etnie o gruppi linguistici sono caratteristiche comuni accompagnate da discriminazioni sistematiche.

Discriminazioni che sono comuni tra i vari gruppi religiosi, soprattutto nei Paesi dove questi gruppi sono la maggioranza. Per esempio in diversi Paesi a maggioranza musulmana essere donna, omosessuale o praticare altre religioni sono tutti motivi per essere discriminati.

Riforme Religiose in India

Sabarimala e altre riforme dell’induismo in India: Secondo me, la tradizione di non lasciar entrare le donne di età fertile nel tempio non era una discriminazione sistematica. Non sono un seguace del dio Ayappa ma se i seguaci lo vedono come un celibe, che non vuole essere tentato dalle donne, non sta me giudicare la loro fede.

L’induismo è fatto da una miriade di modi di interpretare e praticare la religione, tutti ugualmente validi, che vanno dalla negazione di qualunque dio alla credenza in 33 milioni di dèi. Non vi è un libro sacro unico, né un arbitro supremo che può giudicare cosa deve fare un indù. I fondamentalisti induisti vedono questa come una debolezza, vogliono promuovere una visione più ristretta della religione, specificando quali dèi pregare e come farlo. Costringere il tempio di Sabarimala ad accogliere le donne e negare il mito di un loro dio mi sembra una “macdonalizzazione” della cultura e una perdita della diversità religiosa, simile a quella che vogliono i fondamentalisti.

Dopo l’indipendenza dell’India nel 1947, il governo indiano ha attuato una serie di leggi per la riforma dell’induismo, compreso il divieto a discriminazioni sulla base delle caste e del genere. Il problema più grande dell’induismo è come fare che le nuove leggi siano applicate e siano accompagnate da un cambiamento sociale. Lavorare nelle comunità per il mutamento sociale non è facile, richiede decenni di impegno e passione. Invece per la maggior parte degli attivisti penso sia più facile lanciare proteste nelle città per cambiare le leggi.

Riformare altre religioni in India: Le riforme religiose effettuate dal governo indiano finora hanno riguardato quasi esclusivamente l’induismo. Non hanno voluto toccare le minoranze religiose anche se tutte insieme le minoranze ammontano a circa 200 milioni di persone. Ogni tentativo di riformare le religioni delle minoranze è visto come un modo di rinforzare la destra nazionalista anche quando le questioni riguardano violazioni gravi dei diritti umani.

Per esempio, tra la comunità musulmana in India, è lecita la pratica di “triplo talaq” secondo la quale un uomo musulmano può divorziare la moglie solo ripetendo per tre volte la parola “talaq” anche per sms. Questa pratica è vietata nei Paesi vicini a maggioranza musulmana – Pakistan e Bangladesh – ma ogni volta che se ne parla in India, si alza un coro di proteste non soltanto dagli elementi più ortodossi della comunità musulmana ma anche dagli attivisti e progressisti indiani che in altri contesti lottano per i diritti delle donne.

Un altro esempio riguarda l’abuso sessuale delle suore da parte dei preti cattolici. A luglio 2018 una suora aveva denunciato la violenza sessuale da parte di un vescovo, monsignor Franco Mulakkal. Per mesi, la polizia continuò a interrogare la suora mentre il vescovo girava liberamente. In ottobre finalmente il vescovo fu imprigionato ma dopo qualche settimana è stato liberato e accolto con grandi cerimonie dai fedeli mentre la suora che lo aveva denunciato continua a vivere emarginata, e ha ricevuto minacce di morte. La maggior parte dei giornali indiani hanno fatto finta di niente. Un articolo recente di Tim Sullivan dell’agenza di stampa americana Associated Press ha approfondito la questione parlandone con molte suore di diverse congregazioni e denunciando il silenzio e la complicità della Chiesa Cattolica in India. Invece gli attivisti e progressisti indiani sono rimasti in silenzio.

La difficoltà di parlare dei problemi delle minoranze non è limitata all’India. Per esempio, diverse attiviste afroamericane hanno parlato della difficoltà di parlare della violenza contro le donne nelle loro comunità perché poteva essere strumentalizzata dai razzisti e da persone di destra per fomentare gli stereotipi. Attivisti LGBT musulmani denunciano poco sostegno dai progressisti e liberali occidentali, i quali non vogliono essere visti come islamofobi.

Dall’altra parte, sempre più spesso, i blog e i media sociali danno un’opportunità a ciascuno di questi gruppi di alzare la propria voce e di farsi sentire. Nel frattempo il cambiamento sociale sembra procedere a piccoli passi e qualche volta è costretto a tornare indietro. Penso che se riusciamo a vedere da una certa distanza capiamo che il mutamento sociale è inevitabile.
Conclusione

Penso sia fondamentale cambiare e riformare le pratiche sociali e religiose che non rispettano i diritti umani. Questo non significa appiattire le nostre diversità culturali. In ogni caso, cambiare le società con le leggi e con le sentenze dei tribunali può essere visto soltanto come un primo e piccolo passo; il cambiamento reale richiede tempi molto più lunghi.

Nota: L'immagine usata in questo posto è della festa di Ambubashi presso il tempio di Kamakhaya a Guwahati nel nord-est dell'India dove si celebra il potere femminile sacro di shakti. Non vi è nessun'imagine del tempio di Sabarimala in questo post.


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giovedì 10 ottobre 2019

Kashmir: Il Paradiso Imprigionato

Nel 17° secolo, Jahangir, l’imperatore Mughal visitò la valle di Kashmir e ne rimase incantato: «Se esiste paradiso sulla terra deve essere proprio qui». Sono più di 30 anni che quel paradiso è sotto assedio. Le storie di Kashmir sono uno groviglio e non è facile capire quale appartiene a chi, fin dove le storie raccontano la verità, dove si travestono e nascondono sotto i racconti immaginari.

Il 5 agosto 2019 un annuncio del governo indiano ha riacceso i fari su questa regione dimenticata.

Sono 3 le parti coinvolte in queste storie: la gente di Kashmir, l’India e il Pakistan.

Considerata la terra del culto di Shiva dai tempi antichi, l’islam arrivò e conquisto questa terra nel 14° secolo. La disputa fra India e Pakistan riguardo Kashmir iniziò nel 1947 subito dopo la partenza del governo coloniale inglese. L’annuncio del governo indiano del 5 agosto è soltanto l’ultimo atto di questa disputa.

È una storia lunga e complessa con colpi e contraccolpi.

Prima di farvi una spiegazione (semplificata) di questa storia e del significato dell’annuncio del governo indiano, vorrei iniziare con un chiarimento riguardo la valle di Kashmir.

La Valle di Kashmir

Lo Stato indiano di Kashmir con circa 13 milioni di abitanti è costituito da 3 regioni: Jammu, Ladakh e la Valle del Kashmir. Le dispute fra India e Pakistan riguardano la Valle di Kashmir: questa è la zona di conflitto non le altre due regioni.



Con circa 6,9 milioni di abitanti (dati del 2011) la regione della Valle di Kashmir rappresenta circa il 15% della superficie dello Stato ed è quella più popolosa. Circa il 96% della popolazione è musulmana, composta da 2 gruppi principali: il 75% sono Sunniti e il 25% sono Shi’a. A ovest questa regione condivide la frontiera con il Pakistan.

Con circa 5,3 milioni di abitanti (sempre dati 2011) la regione di Jammu rappresenta circa il 26% della superfice ed è la seconda per popolazione. Circa l’85% della popolazione di Jammu è induista mentre i musulmani si aggirano sul 7,5%.

Con solo 290.000 abitanti (il riferimento è sempre al 2011) Ladakh è scarsamente popolata. Circa il 46% della popolazione è musulmana, il 39% è buddhista e gli induisti sono il 12%. Al nord questa regione condivide la frontiera con Cina e Pakistan.

La disputa fra l’India e il Pakistan

Nell’agosto 1947 il Governo coloniale inglese aveva lasciato il subcontinente indiano ma prima di partire l’aveva suddiviso in due Paesi: India e Pakistan. Questa suddivisione riconosceva la domanda di una parte di musulmani di essere «un popolo diverso dagli altri indiani» che chiedevano un Paese solo per loro. All’inizio, il Pakistan era composto da due territori – Pakistan est (oggi Bangladesh) e Pakistan ovest – le due aree dove la maggioranza della popolazione era musulmana.

Nel 1947 il subcontinente aveva anche centinaia di principati e regni, i quali potevano scegliere se far parte dell’India o del Pakistan. Questa scelta riguardava soprattutto i regni che si trovavano vicino alle frontiere dei due Paesi, mentre quelli che erano completamente circondati da uno dei Paesi, di fatto non avevano questa scelta.

Il regno di Jammu-Kashmir con la maggioranza della popolazione musulmana (77%) aveva un re induista, Hari Singh. Lui non era sicuro se far parte dell’India o del Pakistan e aveva richiesto del tempo per prendere la sua decisione. Dopo alcuni mesi di attesa, le forze pakistane erano entrate e avevano occupato alcune parti della Valle del Kashmir, soprattutto nel nord ovest. Hari Singh che non aveva una forza militare per resistere, chiese l’aiuto al governo indiano e decise di far parte dell’India. Questa fu la prima guerra fra India e Pakistan per la valle del Kashmir.

Verso la fine del 1948, con l’aiuto delle Nazioni Unite, la guerra finì: i territori della Valle del Kashmir presi dal Pakistan sono rimasti sotto il suo controllo. Vige tutt’ora quella linea di controllo come frontiera, dove le due forze si erano fermate al momento del cessate il fuoco.

Le Nazioni Unite avevano chiesto un referendum fra la popolazione di Kashmir per decidere se volevano andare in Pakistan o restare in India, però non è mai stato organizzato. Secondo l’India, il referendum si deve fare in tutto il territorio della Valle del Kashmir, mentre secondo il Pakistan soltanto nelle parti rimaste in India.

Gli articoli 370 e 35A del Kashmir

L’articolo 370 della Costituzione, approvato nel 1954, garantiva l’autonomia dello Stato di Kashmir, inclusa una sua Costituzione separata. L’articolo 35A – anche esso approvato dal parlamento indiano nello stesso anno – dava poteri allo Stato di Kashmir di decidere i criteri per definire chi poteva diventare residente permanente dello Stato e i suoi diritti.

Scoppio delle violenze in Kashmir

Vi sono state tre guerre fra India e Pakistan per la Valle del Kashmir. La prima, già spiegata sopra, nel 1947-48. La seconda nel 1965 e la terza nel 1998-99.

Fino alla prima parte degli anni ’80, la situazione nella Valle del Kashmir era tranquilla, come testimoniano le scene dei numerosi film di Bollywood girati qui. In quegli anni, le persone del Kashmir chiedevano “azadi”, la possibilità di avere un Paese libero cioè di non essere parte né dell’India né del Pakistan.

Le violenze in Kashmir sono iniziate intorno al 1988-89. Negli anni ’80, gli Usa avevano sostenuto i Mujahideen pakistani per lottare contro i russi in Afghanistan. Dopo il ritiro delle truppe russe dall’Afghanistan nel 1988, molte di queste persone che credevano in un Islam radicale sono arrivate nella Valle del Kashmir. Uno dei loro compiti era reclutare giovani della Valle del Kashmir in India e mandarli nei campi di addestramento in Pakistan per diventare guerriglieri.

All’inizio degli anni ’90 vi erano più di 300.000 induisti nella Valle del Kashmir, conosciuti come i Kashmiri Pandit. Questi sono diventati i bersagli degli islamici radicali. Secondo i rapporti governativi più di mille Kashmiri Pandit sono stati uccisi mentre le loro case e negozi venivano distrutti e bruciati. La maggior parte di loro sono scappati dalla Valle del Kashmir e molti tutt’ora vivono nei campi profughi sparsi in India. Meno dell’ 1% sono rimasti nella Valle del Kashmir.

I mujahideen pakistani e i loro compagni nella Valle del Kashmir hanno iniziato ad attaccare le strutture e i servizi governativi, in particolare i poliziotti locali che erano visti come traditori. Si pensa che negli anni successivi alla fuga dei Kashmiri Pandit dalla Valle, circa 30.000 persone, la maggioranza musulmane, sono state uccise dagli islamisti radicali perché ritenuti favorevoli al governo indiano.

Il governo indiano aveva risposto con l’invio delle forze militari, le quali hanno poteri speciali che garantiscono immunità dai tribunali civili. Così dagli anni ’90 la popolazione vive schiacciata fra queste due forze: da una parte i guerriglieri che vogliono che la Valle del Kashmir diventi parte del Pakistan e dall’altra le forze militari indiane.

Secondo alcuni articoli, di recente un terzo gruppo si è aggiunto alla lotta, cioè le persone che si ispirano alla filosofia dello Stato Islamico (ISIS). Negli ultimi 4-5 anni nelle proteste si vedono sempre di più le bandiere e le rivendicazioni a sostegno del Califfato Islamico e le “chiamate” per stabilire lo Stato islamico in Kashmir con la legge della Shariat.

La posizione pakistana

La religione musulmana è stato il motivo della nascita di Pakistan e dall’inizio i politici pakistani hanno rivendicato il territorio della Valle del Kashmir perché sarebbe una parte della fraternità musulmana.

Nel 1958 in Pakistan vi fu il primo colpo di stato, seguito da diverse dittature militari. Nel 1973 il Pakistan è diventato un Paese basato sulla legge islamica. Negli anni di leadership del dittatore militare Zia-ul-Haq (1977-88) l’islamizzazione si è ulteriormente rinforzata. Risale a quegli anni l’approvazione della legge sulla blasfemia. Gli ultimi decenni hanno visto crescenti suddivisioni fra i vari gruppi di musulmani in Pakistan, per esempio tra i sunni e gli shi’a, e tra i barelavi e i deobandi, mentre altri gruppi di musulmani (come gli ahmadi e i  bohra) sono stati dichiarati “non islamici”.

Questi fattori lasciano poco spazio di manovra ai politici pakistani, anche perché i capi militari detengono tutt’ora molto potere. Avere Kashmir come parte del Pakistan è diventata una questione di orgoglio nazionale e sarà difficile per loro cambiare posizione.

Le decisioni dell’India

Il 5 agosto 2019 il governo indiano ha deciso di revocare gli articoli 370 e 35A: si è giustificato dicendo che entrambi questi articoli erano temporanei e dopo 65 anni è inutile il loro mantenimento. Inoltre si è deciso di separare la regione di Ladakh dallo stato di Kashmir, creando un territorio autonomo sotto la giurisdizione del governo nazionale. Queste risoluzioni sono state approvate da due terzi della maggioranza nel parlamento indiano. Di fatto, questo significa che lo stato di Kashmir con le due regioni (Valle del Kashmir e Jammu) è ora una parte dell'India come tutto il resto del paese.

Dal 5 agosto a oggi (31 agosto) nella Valle del Kashmir non c’è internet e le reti dei telefoni mobili. Dopo il 12 agosto poco alla volta in alcune parti della Valle il servizio di telefoni fissi è stato ripristinato. Molti leader politici e civili sono in prigione o in arresto domiciliare.

Le reazioni

Secondo i giornalisti pro-governativi, dato il continuo rinforzamento dei radicali islamici e dei simpatizzanti di ISIS, bisognava tentare con una strategia nuova in Kashmir e forse l’abrogazione degli articoli 370 e 35A darà una possibilità di avere pace in questa regione. Dicono che con circa 200 milioni di musulmani (stime 2018) India è il secondo Paese nel mondo per il numero di musulmani e non si può rischiare che il radicalismo islamico contagi il resto dell’India.

Inoltre i filo-governativi dicono che l’articolo 35A era discriminatorio e dava diversi privilegi agli uomini del Kashmir. Per esempio, secondo questo articolo, se un uomo di Kashmir sposava una donna lei acquisiva il diritto di vivere nello Stato mentre una donna di Kashmir perdeva il suo diritto di residenza se sposava un uomo forestiero.

Il primo ministro indiano, nel suo discorso per giustificare l’abrogazione dei due articoli, ha parlato soprattutto di aspetti discriminatori inerenti agli articoli 370 e 35A.

Invece secondo i critici, il governo si è comportato in maniera prepotente: avrebbe dovuto avviare un dialogo in Kashmir sulla necessità di abrogare gli articoli. Loro criticano l’arresto di leader politici e civili come il blocco di internet e dei telefoni cellulari.

Le popolazioni delle regioni di Jammu e Ladakh e nel resto dell’India hanno accolto queste decisioni positivamente mentre le principali critiche sono venute dalla Valle di Kashmir e dal Pakistan. I gruppi separatisti hanno giurato “lotta continua” fino alla realizzazione del loro sogno di diventare parte del Pakistan, minacciando attacchi alle strutture governative.

Comunque, con o senza gli articoli 370 e 35A, la situazione del Kashmir non cambierà nel prossimo futuro. Per il momento il blocco di internet e la mancanza di telefoni mobili hanno permesso alle autorità di mantenere il controllo perché senza i social media è difficile organizzare le proteste. Comunque il blocco di internet e dei telefoni cellulari non può durare in eterno e bisognerà vedere che cosa succederà allora.

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