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lunedì 27 settembre 2010

Vite alla matrioska

Perché certi libri ci piacciono molto e gli altri no?

Preferisco leggere i libri che mi introducono alle esperienze nuove, non sperimentate prima. Allo stesso momento, preferisco i libri che hanno qualcosa di familiare, qualcosa con cui posso identificarmi.

Quando mi piace un libro, spesso vado a cercarne altri simili, ma più delle volte gli altri libri non danno lo stesso piacere.

Per esempio, mi piacciono le storie alla matrioska, dove la storia di una vita racchiude dentro di sé un altra, e quella ti porta ad un'altra ancora e così via. Spesso queste storie sono legate alla ricostruzione ossessiva di un passato.

Le storie alla matrioska ambientate sullo sfondo di shoah sono tra le mie favorite. Forse avevo 13 o 14 anni, quando avevo letto il mio primo libro di questo tipo e ne ero immediatamente catturato. La drammaticità degli eventi, le tragedie di tante vite, le lotte per la sopravvivenza nei ghetti e nei campi di concentramento, erano tutti elementi che mi colpivano con molta forza e quando leggevo una di queste storie, per settimane continuavo a sentire i loro echi nella mia testa.

C'è stato un periodo quando ero convinto che avevo vissuto in un campo di concentramento in un'altra vita. Sognavo di essere chiuso dentro un treno merci con tante altre persone. All'epoca, leggevo le storie dei giovani israeliani che lavoravano dentro i kibbutz e sognavo di andare un giorno in Israele per vivere dentro un kibbutz.

Negli ultimi 15-20 anni, quando ho iniziato a capire quello che succede in Palestina, la mia ammirazione per Israele si è disperso poco alla volta. Comunque ancora oggi continuo a cercare e leggere i libri che parlano di Shoah.

***

Quando ho letto l'introduzione sulla copertina del nuovo libro di Gad Lerner, "Scintille - una storia di anime vagabonde", non ho resistito.

Come me, anche Gad è nato nel 1954 e come me, anche lui ha una famiglia mista dal punto di vista religioso - lui ebreo e la moglie cattolica. Inoltre, come me anche la sua famiglia ha lasciato pezzi di sé nei vari paesi dove ha vissuto. Potevo capire il suo desiderio di riscoprire i luoghi del passato:
... è nato in me l'impulso di visitare i loro luoghi. Non so perché, ma ero sicuro di riconoscerli. Frugando nel mosaico di felicità perdute, rintracciabili nei loro accenni, volevo capire cosa ci fosse d'inenarrabile nella vicenda che li ha schiacciati entrambi. Ho deciso di far da me, essendo la trasmissione naturale del racconto ostruita da grumi d'imbarazzo e avversione.
Invece nonostante tutte le promesse, non ho amato "Scintille". E' un libro interessante, da leggere senza annoiarsi ma non ha evocato la passione dentro di me. Ho avuto la sensazione che Gad non voleva lasciarsi coinvolgere emotivamente mentre lo scriveva. Tornare nei luoghi del proprio passato, nel tentativo di ricostruire le storie di parenti morti o scomparsi tanti anni fa, può essere qualcosa che ti tocca profondamente e ti cambia per sempre. Ciò è vero ancora di più se le storie del passato si sono consumate sullo sfondo di un evento drammatico come shoah. Invece nelle parole di Gad sentivo più il distacco del giornalista che le emozioni di un nipotino alla ricerca della storia di suoi nonni.

Anche lui ammette questo distacco, questa volontà di non lasciarsi coinvolgere troppo, quasi all'inizio del libro:
Cerco l'oggi, non l'eri. Scoprire cosa ne è delle dimore da cui siamo passati forse mi aiuterà a scacciare la tentazione del resoconto vendicativo, di un'altra saga familiare ebraica nei giorni infernali del Novecento, infarcita come di prammatica di controversie patrimoniali, aborti, richieste inoltrate ai figli o al fratello tramite avvocato. Un ginepraio in cui non fingerò di immedesimarmi: frugare nel passato per cucirlo su misura intorno ai nostri malesseri è un detestabile.
Inoltre, mi aspettavo un punto di vista diverso riguardo la religione ebraica da questo libro. Mi aspettavo lo sguardo di uno che conosce la propria religione, ma che ha vissuto un rapporto d'amore vicino ad un'altra religione e per cui, può guardare la propria religione con gli occhi nuovi. Invece, questo sguardo, diverso e nuovo, manca dal libro. Non voglio dire che il libro non sia interessante, ma l'ho trovato un po' limitato.

Per esempio, mi è piaciuta questa descrizione delle diverse anime degli esseri secondo la tradizione ebraica:
Ecco perché Bibbia necessita di nomi diversi per definire i diversi gradi dell'anima, come ricorda lo Zohar, cioè, il "Libro dello splendore", testo principe della Qabbalah: si tratta di nefes (spirito vitale), ruach (spirito) e neshamà (anima interiore o super-anima).
Mentre lo leggevo, pensavo alle descrizione dei diversi strati delle coscienze secondo la tradizione Ayurvedica in India.

Per cui leggere Scintille era come leggere un rapportage dei viaggi, scritto bene, in stile asciutto e giornalistico, ma non ho sentito le voci d'anima dei suoi personaggi.
Quando la storia infrange il mosaico della convivenza, ne prorompe il rancore delle vittime impossibilitate a rifarsi una vita. E intorno a loro si propaga l'ignoranza ben oltre i protagonisti del dramma, trasformando il senso comune; scavando un fossato incolmabile di estraneità negli stessi luoghi che per secoli, prima della separazione forzata, erano fioriti solo grazie alla loro capacità di far tesoro della convivenza.
Scintille - una storia di anime vagabonde, Gad Lerner, Feltrinelli editore 2010

domenica 13 giugno 2010

I custodi del libro

Ho finito di leggere "I custodi del libro" di Geraldine Brooks. La signora Brooks è originaria di Australia ma ora vive in Stati Uniti e ha già vinto il premio Pulitzer per il suo romanzo L'idealista (Neri Pozza, 2005). Il libro mi è piaciuto abbastanza ma non in maniera eccessiva.

book cover Geraldine Brooks
La costruzione generale del romanzo mi è piaciuto. I capitoli alternano tra il presente (ciò è, 1996, dopo la guerra in Bosnia) e il passato.

Il presente è raccontato in prima persona da Hanna Heath e riguarda il ritrovamento di un antico manoscritto ebreo a Sarajevo. Hanna è esperta del restauro dei libri antichi e questa parte mette insieme spiegazioni dettagliate sulle tecniche di restauro con tecniche di pittura, scrittura e rilegatura dei libri in passato, senza farlo pesare come una lezione, ma intrecciando il tutto dentro la trama degli eventi.

I capitoli relativi agli eventi del passato, spiegano il come di qualcosa riguardo la storia del libro che Hanna cerca di capire. Per esempio, se Hanna trova una macchia di vino rosso mescolato al sangue nel libro, il capitolo successivo racconta la storia di quella macchia. All'inizio i capitoli relativi al passato sono in terza persona, e solo verso la fine diventano anch'essi in prima persona. Questi capitoli relativi al passato sono belli perché raccontano le storie di personaggi che non centrano direttamente con il manoscritto e la parte relativa al manoscritto resta qualcosa di marginale.

Penso che tutto il meccanismo del libro funziona molto bene fino a due terzi del libro. Invece tutta la parte conclusiva, dai segreti di famiglia e ai colpi di scena vari che si susseguono uno dietro l'altro, invece mi hanno fatto l'impressione di qualcosa di costruito, artificiale e forzato. La scelta di raccontare gli eventi del passato in prima persona, stona un po' dal resto del libro. Per questi motivi, quando l'ho finito, non ho avuto la sensazione della piena soddisfazione, ma di una parziale delusione.

I rapporti tra cristiani, ebrei e musulmani lungo gli ultimi 500 anni sono lo sfondo di questo libro. Brooks ha anche scritto "Il mondo nascosto delle donne musulmane" per cui, conosce bene il mondo islamico. Le sue riflessioni riguardo le religioni sono molto più aperte e comprensive verso lo sviluppo storico dell'islam, e invece affrontano i fondamentalismi cristiani, dai tempi dell'inquisizione in Spagna fino alla caccia agli ebrei in diversi parti d'Europa nel ventesimo secolo.

Lei parla della rigidità degli ebrei contro l'uso delle immagini nel quindicesimo secolo:
Prodotta in Spagna in età medievale, la cosiddetta "Haggadah di Sarajevo" era una vera rarità: un manoscritto ebraico riccamente illustrato risalente a un'epoca in cui la fede giudaica condannava in modo categorico ogni genere di illustrazione. Si era sempre pensato che il comandamento di Esodo 20,4: "Non ti farai idolo né immagine di alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra" avesse proibito senza eccezioni lo sviluppo delle arti figurative presso gli ebrei del medioevo. ..Quando la Haggadah era stata creata, l'impero musulmano rischiarava le tenebre del mondo medievale: le scienze e la poesia fiorivano nelle sue splendide città, dove i giudei, perseguitati e uccisi nei regni cristiani, venivano se non altro tollerati.
Se in passato gli ebrei erano contro le statue e le immagini, se in passato i fautori delle inquisizioni bruciavano e distruggevano tutto quello che non concordava con le loro idee del giusto, ho pensato che forse c'è speranza anche per i paesi chiusi nel pugno dell'islam fondamentalista, dove si distruggono le statue millenarie di Buddha, dove la musica è vietata! Un giorno anche questi popoli saranno liberi, da ragionarci sopra e pensare come mai eravamo arrivati a pensare alle parole dei profeti in maniera così cieca e brutale?

Hanna la protagonista del libro, è metà cristiana e metà ebrea, ed è innamorata di un musulmano. C'è una parte del libro che ragiona sulla mescolanza delle religioni e delle culture:
Raz era un essere umano di razza indefinita, un antesignano dei magnifici meticci che, mi auguro, popoleranno la terra da qui a un millennio, se i nostri geni continueranno a mescolarsi. La pelle color nocciola gli derivava dal padre, per metà afroamericano e per metà hawaiano. I capelli, neri e lisci, invece venivano dalla nonna giapponese, così come gli occhi a mandorla, che però avevano l'azzurro intenso di quelli della madre, una campionessa di windsurf svedese. .. Lui mi aveva spedito le foto del matrimonio: una cosa spettacolare! La moglie, scrittrice e poetessa, era figlia di una curdo-iraniana e di un americano di origine pakistana. Morivo dalla voglia di vedere i loro figli: sarebbero stati perfetti come pubblicità della Benetton!
La globalizzazione ha iniziato a rompere le catene che ci chiudevano dentro i nostri ghetti, i nostri paesetti, le nostre comunità. Gli sviluppi della tecnologia ci aiutano a costruire nuovi rapporti con le persone che vivono lontani. La crescita dei paesi dell'Asia, significa che gli asiatici inizieranno a girare il mondo, ma anche gli europei e gli americani comuni, scopriranno l'Asia. Forse anche Africa finalmente, troverà il balzo per liberarsi e mescolarsi con il resto del mondo. In questo nuovo mondo, quale forma avranno le religioni? Nasceranno nuovi profeti e nuove religioni? Sarà la fine delle religioni organizzate e la nascita della nuova spiritualità? Questi pensieri mi girano per la testa.

Religions and God

venerdì 4 giugno 2010

Secondo giuramento

Non ne posso della imprevedibilità della biblioteca della Sala Borsa di Bologna. Ieri sera ero rimasto bloccato nel traffico caotico di Via Lame/Zanardi e quando ero arrivato, il guardiano mi aveva detto che oramai era l'ora di chiusura e che dovevo tornare un'altra volta. Oggi ho preso un permesso e sono arrivato in orario, ma il personale era in sciopero. Fin qui niente di particolare, ma quello che mi ha disturbato è quando ho chiesto se potevo tornare domani mattina, mi hanno detto che potevo provare, ma potevano di nuovo essere in sciopero.

Penso che scioperare sia un diritto inalienabile dei lavoratori, ma non vi sono regole per salvaguardare i diritti del pubblico? Devo andare domani mattina e provare, e può darsi che riuscirò a restituire i libri, ma è possibile che non lo potrò fare perché possono scioperare senza preavviso?

Le altre biblioteche dei quartieri mandano gli email, avvisano, ma la Sala Borsa non lo fa. Il mese scorso, avevo trovato la biblioteca chiusa perché avevano deciso di chiuderla durante la settimana di primo maggio. Anche quella volta ero rimasto male, e mi ero chiesto se non potevano informare gli iscritti con un email?

Penso che sia arrivato il momento di dire addio alla Sala Borsa. Va bene solo per portare gli ospiti per far ammirare le rovine romane e il soffitto dipinto. Invece come biblioteca, il servizio è così poco affidabile, che è meglio frequentare la nostra biblioteca di quartiere e dimenticare la Sala Borsa. Per quanto mi riguarda possono anche chiudere la biblioteca di Sala Borsa, voglio solo riuscire a restituire i libri che ho, non voglio più tornarci.

L'avevo già giurato una volta circa 2 anni fa, per più o meno gli stessi problemi. Poi, dopo circa un anno avevo dimenticato il mio giuramento, ed ero tornato a prendere i libri da loro. Questa volta forse ricorderò il mio giuramento di più! Per quanto mi riguarda, dopo che ho restituito i libri, possono scioperare in eterno.

lunedì 3 maggio 2010

Kiran Desai a Torino

Il prossimo 13 maggio a Torino, presso il Salone d'Onore, Castello del Valentino, Viale Mattioli 39, dalle 17,00 alle 20,00 vi sarà Kiran Desai, vincitrice del premio Booker per il suo libro "Eredi della sconfitta".

Ci sarà anche Shobha Dé, famosa per i suoi bestseller ambientati nel mondo dei benestanti indiani, punteggiati dalle descrizioni erotiche esplicite molto apprezzate dai giovani indiani. Oltre ai suoi libri, Shobha Dé è una persona brillante, sempre pronta con le battute taglienti, che spesso spiazzano quelli che hanno un'idea stereotipata dell'India e delle donne indiane.

Alla fine vi sarà anche una danza sulla storia di Rama e Sita tratta dal libro sacro Ramayana.

Ingresso all'evento è gratuito.

sabato 30 gennaio 2010

Corso di Scrittura Creativa

Nota: Questo scritto è stato aggiornato in agosto 2022
 
Avevo scritto la prima bozza di un romanzo nel 2007, di 300 pagine circa. L'avevo fatto vedere ad una cugina che lavora per una casa editrice indiana. Quando è pronto, devi farmelo vedere prima di parlare con qualcun altro, mi aveva detto. Tutte le persone che l'avevano letto avevano dato pareri positivi. Dovevo solo metterlo a posto e forse avrei trovato qualcuno disposto a pubblicarlo.

Invece dopo 3 anni, non riesco ancora a tornare a riscrivere quel romanzo. L'ultima volta che sono andato in India due mesi fa, mia cugina mi ha fatto una lunga predica e mi ha dato l'ordine che vuole vedere la seconda bozza del mio scritto entro sei mesi.

Non so in quale lingua devo scrivere, l'avevo spiegato alla mia cugina. Era Hindi la mia lingua madre e dovevo scrivere in Hindi invece devo riconoscere che la mia conoscenza della lingua si è ridotta notevolmente negli ultimi 25 anni. Da alcuni anni, ho ripreso a scrivere in Hindi ma troppo spesso devo consultare il dizionario perché non mi ricordo le parole giuste.

Potrei scrivere in italiano, ma non sono mai sicuro della grammatica. Mi dispiace per non aver frequentato un corso e ad aver imparato la lingua in maniera sistematica. Così scrivo spesso in inglese, la lingua che conosco meglio di tutte le altre, ma dentro di me lo sento come un tradimento. Un tradimento agli ideali di papà e un tradimento alle mie idee da giovane.

Non mi interessa in quale lingua vuoi scrivere, mi aveva detto mia cugina, voglio vedere il romanzo.

Due mesi dopo il rientro quando avevo visto l'annuncio di un corso di scrittura creativa organizzato dalla Regione, avevo deciso all'improvviso di iscrivermi, e subito avevo compilato e mandato la domanda, per non avere i ripensamenti.

Veramente non pensavo di imparare qualcosa. Ho già pubblicato diversi racconti, non mi serve imparare niente, avevo pensato - ma sarebbe bello stare insieme alle persone che vogliono scrivere, scambiare idee con loro. Amo mio lavoro e amo viaggiare in diversi paesi del mondo, ma devo riconoscere che ciò non aiuta a creare legami stabili con gli altri. Invece in questo periodo non avevo nessun viaggio in programma e potevo finalmente parlare con gli altri della scrittura.

Il corso è stato utile. Per esempio, dover prendere una parte di un racconto scritto da qualcuno e inventare il suo inizio e la sua fine, se dipendeva solo da me, non l'avrei mai fatto. Invece dover lo fare significava scegliere un tema che altrimenti non avrei mai scelto. Ascoltare 30 altri modi di iniziare e finire quello stesso racconto, mi faceva sentire quasi allucinato. Per cui, il corso mi ha aiutato a rompere gli schemi ed a sviluppare la fantasia.

Tanti anni fa mi piaceva scrivere con delle frasi particolari, con delle parole ricercate, volevo che le persone quando lo leggevano dovevano restare meravigliati del mio modo di scrivere. Invece ora preferisco scrivere con delle parole semplici, vorrei che sia la storia a parlare e non le parole o il modo di raccontare. Durante il corso, Christiana e Daniele, i docenti del corso, hanno insistito molto sull'originalità di espressione, per cui anch'io ho cercato di immaginare delle frasi un po' particolari e delle parole meno comuni, ma non lo sentivo come mio stile, era solo un modo di fare contenti i docenti.

Dall'altra parte, ho capito che il mio desiderio di scrivere con le parole comuni e semplici, poteva anche nascondere un po' di pigrizia. Ho imparato che devo sviluppare la capacità di guardare quello che scrivo con maggiore senso critico. Daniele e Christiana sono due persone molto diverse e sicuramente affrontano la scrittura in maniera diversa. Questo era molto stimolante.

Ma la cosa più bella del corso è stata l'opportunità di interagire con tante persone diverse, venute da tanti mondi diversi e intravvedere i loro processi creativi, trovare somiglianze e differenze. Mi dispiace che non ne avrò più la possibilità.

Oggi durante il corso, dovevamo ragionare in piccoli gruppi sulla domanda "Perché ho paura di scrivere". Ero con Moira che viene dall'Argentina e con Sanaa che viene dal Marocco. Non so perché ma pensavo che Moira si chiamasse Monica e quando l'ho chiamato Monica, lei ci ha raccontato che spesso le persone sbagliano il suo nome e la chiamano Monica (forse si può scrivere un racconto "La ragazza che non si chiamava Monica"?). Ma invece di ragionare sulla domanda "Perché ho paura di scrivere", abbiamo cominciato a parlare del nostro essere immigrati, dei pezzi del nostro essere sparsi tra diversi paesi.

Parlare di che cosa significa essere un immigrato è uno dei  miei temi preferiti e ci torno su continuamente. Moira ha detto che bisogna prendere i propri ricordi e le esperienze più belle e portarle con sé, allora non si soffre. Anch'io penso un po' come Moira. Penso che il mio paese ideale è dentro di me. Salman Rushdie parla delle nostre "patrie immaginarie". In "Maximum city", Suketu Mehta si definisce "di essere un cittadino del paese del desiderio". Mi sarebbe piaciuto continuare a parlare di questo tema.

Invece dopo il corso, mentre tornavo a casa, ho pensato che durante il corso non abbiamo mai parlato di informatica, blog, internet e come tutto questo nuovo mondo sta cambiando il nostro modo di esprimerci e di essere scrittori. Sull'ultimo numero di Internazionale, c'è l'inchiesta della rivista Edge su questo tema. Forse dovevamo ragionare anche su questo? Per esempio, se scrivere il blog ci aiuta a superare le nostre paure o se è un nuovo ostacolo per affrontare la scrittura in modo serio?

Comunque, per me il corso è finito oggi. Lunedì devo partire per per lavoro per la Cina, e non potrò partecipare agli ultimi due incontri del corso. Non potrò ascoltare i racconti degli altri. Li potrò leggere, ma non sarà la stessa cosa.

Non ho ancora risolto come fare a riprendere il mio romanzo, ma forse mi verrà un'idea. Spero.

Aggiornamento del 23 agosto 2022


Non ho mai finito quel romanzo che avevo iniziato a scrivere nel 2007. Intorno al 2012-14, avevo iniziato a scrivere un altro, anche questa volta in inglese e anche questo, non sono riuscito a finire.

Poi, circa un anno fa, mentre ero chiuso a casa per le paure legate alla pandemia di Covid, ho ripreso l'idea di quello che avevo iniziato nel 2007, e questa volta l'ho cominciato a scriverlo in hindi, la mia lingua materna. Ho finito la prima bozza e sono a buon punto con la seconda scrittura. Una piccola parte del libro è ambientata in Italia, ma la maggior parte della storia si svolge in India.

E' una storia complessa che copre un lungo periodo, dai primi anni 1960 fino ad oggi, e con molti personaggi. Mi piace come è venuta ma ho ancora alcuni punti interrogativi in testa. Sicuramente, devo fare la terza stesura prima di farlo leggere da qualcuno. Comunque, sono contento che alla fine dopo più di 20 anni di prove, sono almeno riuscito a completarlo. Ho tutte le mie dita incrociate!

sabato 2 gennaio 2010

Immigrato o espatriato?

Mi piace leggere le riflessioni delle persone riguardo alla loro esperienza di essere immigrati. Leggendo le loro parole, qualche volta mi sembra di capirmi meglio, di dare un nome e una descrizione alle mie sensazioni.

Bharati Mukherjee ha lasciato India negli anni 1960 e si è trasferita prima in Canada e poi in America, dove insegna all’università. Ha iniziato a scrivere molto prima che gli scrittori d’origine indiana come Salman Rushdie, Vikram Seth, Jhumpa Lahiri, ecc. fosse di moda.


Recentemente ho letto il libro di racconti, “Episodi isolati” di Bharati Mukherjee, pubblicato in America per la prima volta nel 1985 (versione italiana 1992, Feltrinelli). Nella sua introduzione lei ha scritto riguardo alla propria esperienza di essere una scrittrice immigrata:
“L’ironia sembrava assicurare al tempo stesso distacco e superiorità rispetto a quei figli beneducati dell’era post-coloniale così simili a me, alla deriva nel nuovo mondo, incerti se ne avrebbero mai fatto veramente parte.
Se si è costretti a vivere nell’incertezza, se si è alla continua ricerca di segni, se si attende – rinunciando anno dopo anno, a pezzetti riluttanti di sé, aggrappandosi ai ricordi di un passato sempre più lontano – non si apparterrà mai ad alcun mondo.
… Per dirla in termini più brutali, in Canada ero spesso scambiata per una prostituta o una taccheggiatrice, non di rado pensavano che facessi la domestica e mi elogiavano con un certo stupore perché non avevo un accento cantilenante. La società nel suo complesso, o settori importanti di quella società, erano soliti considerare me, e a quelli come me, in maniera riduttiva e mutilante. Negli Stati Uniti, invece, vedo me stessa in quei reietti; mi riconosco in un articolo su una prostituta indiana di Trinidad; nel dirigente di successo che sente cassette di musica da film hindi mentre guida in direzione di Manhattan; nell’oscuro contabile che cerca di trovar marito alla figlia sbandata; nei professori universitari, nei domestici, negli studenti di scuola superiore, negli inservienti clandestini dei ristoranti che fanno cucina esotica. E’ possibile – aguzzando le orecchie e con la giusta attrezzatura – udire l’America che canta anche fra le pieghe della cultura dominante. Anzi potrebbe essere quello il miglior punto d’ascolto per i Whitman della prossima generazione. Per me, tutto ciò ha significato il passaggio dall’orgoglioso isolamento dell’espatrio all’esuberanza dell’immigrazione.”
In queste parole, Mukherjee espone il suo punto di vista sulla differenza tra un'espatriato e un’immigrato. Finché si sente un espatriato, ciò è, una persona venuta in un altro paese per un po’ di tempo che pensa di tornare al proprio paese, lei si sente calpestata e discriminata, ma quando decide di sentirsi un’immigrata, una che ha scelto di vivere in un altro paese, lei non si sente più isolata, riesce a identificarsi con gli altri immigrati, felice di aver fatto il salto, e si impegna con una certa gioia nella lotta per costruirsi una propria vita nella nuova patria.

Non capisco bene la differenza tra l’espatriato e l’immigrato che Mukherjee esprime in queste sue parole. Voglio dire, la capisco dal punto di vista della sua logica, ma non la sento come una spiegazione emotiva. Ma forse non è né anche importante questo? In fin dei conti, ciascuno di noi che cerca significati del proprio essere, ha bisogno di trovare una propria spiegazione!

***
Le storie che scrive Mukherjee, sono un modo insolito di vedere e descrivere la realtà. Per esempio, nella storia intitolata “La signora di Lucknow”, lei racconta di una signora musulmana, nata in India e cresciuta in Pakistan che vive in America e ha una storia con James, un signore americano. Ad un certo punto nella storia, la moglie di James torna a casa in anticipo e scopre la signora musulmana nuda nel suo letto:
Lei sedette sul letto, dalla mia parte. Mi fissò. Se quello sguardo mi avesse fatta sentire clandestina e odiosa, forse non avrei pianto, più tardi. Sollevò il piumino dai miei seni come farebbe un internista, e sbuffò di nuovo. “Si”, disse, “non nego che possa aver trovato in lei un certo interesse,” ma il suo sguardo attraversò il mio volto fino al cuscino sottostante. Poi si alzò, lasciando ricadere il piumino. Ero un’ombra senza spessore né colore, un’ombra tentatrice che si sarebbe dileguata verso una città brulicante di milioni di ombre simili quando la relazione con James fosse terminata."
Alla fine, quello che ferisce la signora nata a Lucknow è la sensazione che è troppo insignificante per essere presa seriamente dalla moglie del suo amante, “Lei ha riso di me. Si è presa gioco della mia passione.”

Come potete capire, Mukherjee ha capacità di entrare nella psiche umana e vedere cose in maniera insolita. E’ questo suo modo di far vedere lati meno esplorati che mi è piaciuto nei suoi racconti.

giovedì 31 dicembre 2009

Coro di Babele

Avevo letto alcuni estratti del nuovo libro di Amitabh Ghosh, “The Sea of Poppies” (L’Oceano dei Pappaveri, Neri Pozza editore, 2008) nella rivista indiana Outlook, nel 2007. Si trattava del capitolo 5, nel quale Deeti, la protagonista principale del libro e la moglie di Hukum Singh, il drogato di oppio, va a recuperare il suo marito alla fabbrica di oppio di Ghazipur.


Ogni libro di Amitabh Ghosh porta con sé la scoperta di un nuovo mondo. Per esempio, “Il Palazzo degli Specchi” era la scoperta di una Birmania alla fine del dicianovesimo secolo. “Il Paese delle Maree” era la scoperta di Sunderbans e di delfini del fiume Gange nella baia del Bengala. Quando ho letto l’anteprima del quinto capitolo di “L’Oceano dei Pappaveri”, sapevo che sarebbe stata la scoperta di un’India nuova, della quale non avevo mai sentito parlare prima, l'India dei campi e fabbriche di oppio. Per quanto ne sapevo, la guerra dell’oppio era una storia soltanto tra gli inglesi e i cinesi.

Alla fine ho letto il libro nella versione inglese, mentre ero in India nel 2008. Come faranno a tradurrlo in altre lingue, avevo pensato, mentre lo leggevo? Un giorno lo leggerò anche in italiano, mi ero promesso, per verificare di persona come avevano affrontato la traduzione del libro, i traduttori italiani!

Il linguaggio del libro

L’Oceano dei Pappaveri è un coro di voci in diverse lingue, un insieme di personaggi improbabili, provenienti da diverse parti del mondo, ciascun personaggio con la propria lingua. Il libro originale è stato scritto in inglese e affronta la diversità linguistica dei suoi personaggi principali in modo diversificato.

Deeti, suo marito Hukum Singh e sua figlia Kabutari, e altri personaggi del loro villaggio, tutti parlano la lingua Bhojpuri. Questa parte del libro è stata scritta in maniera normale – la maggior parte è in inglese e soltanto alcune frasi sono lasciate in lingua originale. Dove il contesto non chiarisce il probabibile significato di queste frasi in Bhojpuri, l’autore spiega il loro significato in inglese.

Zachary Reid, il ragazzo mezzosangue americano, figlio di una schiava nera, parla inglese americano, mentre Paulette Lambert, la figlia di un francese, cresciuta a Calcutta da una balia bengalese, sa cambiare il proprio modo di parlare secondo il contesto. Raja Neel Rattan, il nobiluomo bengalese, parla il bengalese raffinato e l’inglese degli inglesi. Tutti questi personaggi, ognuno con le sue variazioni specifiche, parlano una lingua comprensibile e tutto sommato, sono traducibili in altre lingue.

Ma vi sono due gruppi specifici di persone, per i quali, Ghosh ha inventato due modi molto particolari di parlare l’inglese. Il primo è il gruppo dei Lascari, i marinai provenienti da diversi paesi dell’Africa, dal medio-oriente, dell’oceano indiano, dal sud Asia e dall’estremo oriente. La loro lingua mescola insieme parole da diverse lingue con l’aggiunta di parole nautiche inglesi. Per esempio, Serang Ali, un Rohangiya della Birmania e capo del gruppo dei lascari, parla così:
Lambert missy scappata a sposare altro pezzo d’uomo. Molto meglio Malum Zikri dimentica lei. Ognimodo lei troppo magra. Lato-Cina lui prende bel pezzo moglie. Bella bella, davanti e dietro. Fa malum Zikri troppo troppo felice dentro.”
Il secondo gruppo è invece quello degli inglesi che vivono in India da molti anni, inseriti dentro un sistema di gerarchie e di rapporti con il loro ambiente, con il quale comunicano in un linguaggio tutto nuovo, mescolando più lingue. Per esempio, leggete queste parole del signor Doughty quando parla del vecchio re di Rashkalli:
Se mai c’è stato un gentiluomo negro, quello era lui! Il miglior indigeno che si possa immaginare, tutto preso dai suoi liquori, le sue ballerine, i suoi tumasher. Non c’era uomo in città capace più di lui di mettere su un burra-khana. Saloni luccicanti di specchi e candele. Paltan di domestici e khidmutgar. Damigiane di rosso francese e barili di simkin ghiacciato. E squisiti karibat! Ai vecchi tempi la cambusa del Rascally era la migliore in città. Niente brodaglie e pesce secco alla tavola di Rascally. I dumbpoke e i pulao non erano male, ma noi gente di mare aspettavamo il curry di pesce e il chitchky di spinaci...”
Volete fare un conto delle parole che non avete capito in questo paragrafo? Gli indiani sono vantaggiati perché se sanno Hindi, Bhojpuri o Urdu, possono indovinare il significato di maggior parte delle parole strane, ma forse alla fine, non è così importante capire il significato di ogni parola che si legge? Penso che delle volte, può essere sufficiente avere un’idea generale di quello che parlano, e il suono delle parole non capite, comunque dona una comprensione istintiva dell’ambiente e di quello che viene detto, meglio di qualunque descrizione.

Comunque, penso che i traduttori del libro, Anna Nadotti e Norman Gobetti, hanno fatto un lavoro che merita un premio per la traduzione di questo libro. Sono riusciti a trasmettere il senso delle diverse lingue e dei diversi personaggi. Nella loro nota in fondo al libro, loro parlano della difficoltà di tradurre il testo di questo romanzo e di una lettera di Ghosh che diceva: “Credo che un romanzo dovrebbe sempre avere una certa dose di rumore di fondo, che può non essere immediatamente comprensibile ma serve ad altri scopi.”

Il mondo del libro

Ghosh ha immaginato tutto un mondo per il libro. Ha creato tanti personaggi ricchi di dettagli e di ideosincrasie, come pezzi di una ragnatela, ciascun con la propria storia. Subito all’inizio del libro, il sogno di Deeti fa intuire che i vari personaggi finiranno dentro quella nave che lei ha sognato. Resta la curiosità di vedere come i diversi pezzi del puzzle troveranno il loro incastro nella storia.

Ghosh ha evidente simpatia per i personaggi messi ai margini nei vari gruppi – Kalua l’intoccabile, Zachary che non deve dimenticare il sangue nero nelle sue vene, Paulette che non ha le maniere degli europei, Jodu il ragazzo musulmano cresciuto insieme alla Paulette, Serang Ali e altri suoi compagni, i personaggi “girmitya” che si trovano insieme nella nave, e Ah Fatt, il prigionero cinese, tutti sono tracciati con simpatia e amore. Le loro parole e le loro vite hanno una dignità che normalmente i romanzi coloniali non donano a questo tipo di personaggi.

Dall’altra parte, Ghosh non lascia nessuna giustificazione nobile o romantica ai suoi personaggi inglesi. Non li fornisce nessuna scusa "civilizzatrice" spesso usata nei romanzi coloniali scritti da autori inglesi. Sono persone normali, mosse anche da egoismo, pronte a dimenticare il fairplay o la giustizia se fa comodo agli obiettivi del loro dominio. In questo senso questi personaggi sono più credibili.

In qualche sua intervista riguardo il libro, Ghosh ha parlato della brutalità dell’impero brittanico costruito sul commercio dell’oppio.

Uno dei personaggi più innovativi creati da Ghosh in questo libro è quello di Baboo Nob Kissin, il gumusta che pensa di essere l’incarnazione di una madre mitica, innamorata di dio Krishna. Il suo amore per Zachary, che lui vede come dio Krishna, è tenero anche se è ai limiti della pazzia. E’ un esempio delle complessità delle tematiche transgender sull’identità sessuale in India, diverso da come lo si affronta e teorizza in occidente.

Conclusioni

E’ stato un piacere rileggere questo libro, ma devo confessare che nell’insieme questo libro mi ha deluso un po’. Singolarmente ogni personaggio è stato creato con cura e maestria, ma il libro mi ha dato l’idea di essere costruito a tavolo. Il comune destino dei personaggi che trovano sulla nave, non mi ha dato la sensazione dell’inevitabilità delle loro vite. Non voglio dire che il libro non è bello, anzi è molto bello, ma penso che alla fine, resta un coro di babele, un coro molto bello e interessante, ma non diventa una sinfonia che ti lascia con un senso di esaltazione. Forse ciò dipende dal fatto che è la prima parte di una trilogia e percui la storia non è compiuta?

A voi invece è piaciuto questo libro? Cosa pensate dei diversi linguaggi usati in questo libro?

Note:
Cliccate qui, se volete leggere il blog di Amitav Ghosh in inglese

Potete anche scaricare il testo scritto da Ghosh “The Ibis chrestomathy” (in inglese, formato PDF), che spiega le origine e i significati di alcune delle parole “strane” che trovate in L’Oceano dei Pappaveri ( )

domenica 1 novembre 2009

Identità, dolore e violenza

Oggi (3 ottobre) ero a Ferrara al Festival di Internazionale, definito come "un weekend con i giornalisti del mondo". E per la prima volta nella mia vita, ero ufficialmente "un giornalista"! Alcuni giorni fa avevo provato a compilare il modulo per i giornalisti al sito del Festival, giustificandolo per il mio rapporto con il sito di Kalpana e poco dopo avevo ricevuto la conferma della mia registrazione.

L'anno scorso al premio Grinzane Cavour ero stato uno "scrittore", anche quella era la prima volta che mi ero trovato nei panni scomodi di un'identità nuova!

Sia come scrittore che come un giornalista, mi sento un po' un impostore e forse un traditore, forse perché dentro di me, vorrei sentirmi ancorato alla mia identità di medico e magari di quello che lavora per un organismo umanitario senza dubbi e ambiguità? Ci ho pensato, quando Suad Amiry, la scrittrice e architetto, metà palestinese e metà siriana che vive a Gaza e scrive della vita palestinese, si è definita come "scrittrice per caso" (accidental writer).

Cosa significa sentirsi dentro di se diverse identità? Suad ha detto che è naturale avere identità multiple, che siamo anche figli e genitori allo stesso momento, siamo fratelli e zii allo stesso momento, così possiamo essere anche architetti e scrittori allo stesso momento. Lei definiva la propria identità come le 20 pagine di un libro, che viene semplificata e ridotta a una pagina sola, quella di essere "musulmani arabi fanatici" per poter colpirli e giustificarsi davanti agli altri. In questo senso, le parole che parlano delle nostre identità, le descrizioni dei popoli che evocano le nostre immagini, sono strumenti molto potenti.

"C'era un tempo che dicevano che le mamme vietnamite, non erano come noi. Mandavano i propri figli a morire per le strade. Oggi siamo noi, le mamme palestinesi, ad essere descritte così", ha detto Suad.

E' stato molto bello e forte la sessione su "La scrittura al tempo della violenza". I tre relatori rappresentavano tre diversi modi di essere scrittori e di ragionare sulla violenza nella loro scrittura.

Abdourahman Waberi, originario di Gibuti, che vive tra Francia e Stati Uniti, ha scritto "Gli Stati Uniti d'Africa", nel quale lui capovolge il mondo e guarda alla "povera Europa" dagli occhi di un'Africa ricca e potente, e vede le tribù e le etnie in lotta tra di loro in Italia, in Svizzera, in Belgio. Il suo approccio mi sembrava più intellettuale e cerebrale.


Romesh Gunesekera, originario di Sri Lanka, cresciuto tra le Filippine e l'Inghilterra, ha parlato dei suoi libri come "the Reef", dove storie umane all'improvviso si trovano mischiate nella violenza. Il suo modo di parlare e di ragionare sul suo lavoro era molto più legato all'emotività e alla sensibilità umana.

Dopo l'incontro, mentre camminavo con Romesh fuori, parlavamo degli scrittori emigrati per i quali il tema della ricerca delle proprie radici è spesso una fase importante del loro lavoro. Lui ha risposto che "tutti i bravi scrittori sono stati emigrati - da Dante a Shakespear". Era un'affermazione che mi ha incuriosito. Sapete dei bravi scrittori che non sono mai andati fuori dalle proprie città, per rispondere a Romesh? Comunque, penso che non è una domanda molto chiara, perché come si fa a definire "un bravo scrittore"?


Invece Suad Amiry parlava della violenza come vita vissuta, non come qualcosa di astratto. Aveva un modo molto semplice di parlare e spesso cercava di sdrammatizzare quando parlava delle situazioni tremendamente dolorose o tragiche, cercava di farci ridere. Invece aveva due occhi pieni di tristezza, e nonostante la risata o il sorriso, ogni tanto il tremolio della sua voce o gli occhi che diventavano lucidi, tradivano il dolore. Mi è piaciuta molto e vorrei leggere i suoi libri.


Maria Nadotti, giornalista italiana che conduceva l'incontro è stata brava. La sua osservazione che mentre emigrazione riduce e rimpicciolisce i paesi coinvolti nelle guerre, allo stesso momento espande i loro confini, per esempio come gli scrittori emigrati, mi è piaciuta molto e mi ha fatto riflettere.


Dopo questo incontro, ho ascoltato anche Christian Caujolle, il responsabile dell'agenzia di fotografia Vu di Parigi. Mi aspettavo qualcosa di diverso e non sempre condividevo quello che lui diceva. E' vero che la mia comprensione del francese non è proprio perfetta, e forse non ho capito bene quello che lui diceva, ma la distinzione che lui faceva tra la fotografia come un'immagine stampata frutto della reazione delle particelle di argento e le immagini digitali, mi è sembrata più una posizione nostalgica che di reale differenza.


Non mi trovavo anche con il suo discorso sulla quantità e la qualità per parlare della fotografia digitale come qualcosa di inferiore. Ma anche le macchine fotografiche tradizionali, ormai non erano usate da tutti? Forse lui parlava dell'enorme quantità di foto che si possono fare le macchine digitali?

Invece mi è piaciuto il suo discorso sul rapporto tra la macchine digitali e l'internet e come le due tecnologie sono venute insieme per crescere, rinforzandosi a vicenda.

Il mio ultimo incontro del pomeriggio, l'avevo con la giornalista cinese Karen Ma che vive a Nuova Delhi. Mentre l'aspettavo, ho visto Fred Pearce, il giornalista della rivista scientifica New Scientist, che appare spesso anche su Internazionale con il suo pezzo sul valore ecologiche delle nostre scelte quotidiane. Mentre l'argomento ambiente è tra le mie passioni, il suo modo di ragionare mi lascia indifferente e raramente lo leggo.


L'incontro con Karen Ma mi ha sorpreso. All'inizio, si vedeva che non era a proprio agio mentre parlava con me. Conoscendo i delicati rapporti tra India e Cina, potevo capire la sua paura di trovarsi in qualche pasticcio con la stampa indiana. Invece dopo un po' si è rilassata. Mi ha sorpreso un po' la sua considerazione che non riesce a capire il modo di ragionare degli indiani, i quali non dicono mai niente in maniera chiara, sopratutto quando non sono in accordo con qualcosa o se devono dire di no per qualcosa. Penso che sia un tratto comune in tutta Asia, questa difficoltà ad essere sinceri e chiari per "non urtare i sentimenti del altro" o "per non essere maleducati"! Anche tra i cinesi, penso che funziona così. Forse lei ha bisogno di più tempo per iniziare a capire il linguaggio non verbale degli indiani, quando vogliono dire di no, le ho suggerito.


Ho registrato tante interviste e interventi oggi al Festival. Spero prima o poi, di trascriverli tutti e presentarli. In tanto, sono felice per questa giornata così stimolante e ricca, grazie a Internazionale.

mercoledì 17 giugno 2009

Dimagrire seguendo i principi della dieta ayurvedica

Tra i libri bestseller della stagione estate 2009 in India, c’è anche il libro intitolato, “Don’t lose your mind – lose your weight” (“Non perderti la testa, perdi il tuo peso”, Random House India, 2009) scritto da Rujuta Diwekar. La signora Diwekar è la nutrizionista più famosa dell’India d'oggi, dopo che ha aiutato ad alcune attrici famose di Bollywood a perdere i chili di troppo con la sua tecnica di alimentazione ayurvedica.
La sua tecnica di dimagrimento è apprezzata perché non richiede i sacrifici da fame, normalmente richiesti per perdere il peso. A prima vista, leggere i suoi consigli non sembra affatto un modo per perdere i chili, ma sembra piuttosto un modo di guadagnare qualche chilo. Invece la lista delle celebrità che giurano l’efficacia di questa sua tecnica, continua a diventare sempre più lunga, per cui anche il numero delle sue seguaci continua a crescere.
Essere “magri e belli” è oramai un imperativo dettato da cinema, TV e le riviste che guidano l’opinione pubblica in tutti i paesi e tutte le culture. Essere grassi o percepirsi sovrapeso, è oramai paragonabile ad essere brutti o almeno essere poco attraenti, non solo per le donne ma anche gli uomini. Recentemente, avevo letto un articolo riguardo una uno studio condotto nelle isole Figi, dove avevano trovato che dopo l’introduzione delle trasmissioni televisive, avvenute solo nel 1995, il 70% delle adolescenti si sente sovrapeso e per la prima volta nella storia del paese, sono stati diagnosticati i casi di anoressia e di bulimia.
Anche in India, i criteri di bellezza sono cambiati. Una volta le donne formose e prospere erano considerate il simbolo di bellezza e di sex-appeal, oggi invece è la magrezza che regna sovrana. Poi, all’inizio erano solo le donne indiane che cercavano di mantenere o di ritrovare la linea, oggi anche gli uomini sembrano altrettanto preoccupati. Dall’altra parte, l’India è diventato il paese con il più alto numero di persone diabetiche al mondo, e il numero delle persone con problemi cardiovascolari continua a crescere nel paese, per cui, penso che parlare di controllare il peso e di seguire qualche regolare regime di esercizio, è importante.
Il primo consiglio che da Rujuta Diwekar nel suo libro è quello di voler bene a se stessi. Secondo lei, volersi bene, piacersi e non preoccuparsi del proprio peso, non diventare ossessionati dalla bilancia per controllare se uno ha perso qualche chilo o meno, non è solo il primo passo per perdere i chili di troppo, ma è importante anche per diventare più in forma. I muscoli e le ossa pesano di più del grasso, lei spiega, e per questo motivo, se una persona perde il grasso ma guadagna in muscoli e in consistenza delle ossa, potrebbe continuare a pesare lo stesso, anche se diventerà più snella e sana. Dall’altra parte, secondo Diweker le diete che limitano i nutrienti o che causano disidratazione, possono far perdere i chili in fretta, ma la persona diventa meno sana e in ogni caso, dopo un po’ quel peso perduto ritorna con ancora più forza.
Il suo secondo consiglio è quella di evitare tutti gli alimenti venduti come “prodotti dietetici” – ciò significa non prendere dolcificanti con poche calorie invece dello zucchero, di non bere bibite a calorie zero, di non mangiare patatine e gelati con meno grassi, ecc. Secondo Diweker, tutti questi prodotti sono dannosi e poi danno un senso di falsa sicurezza che “assumiamo meno calorie”, per cui alla fine, finiamo per mangiare di più. Invece lei consiglia di prendere tutti i prodotti genuini, oraganici senza pesticidi e conservanti chimici, e diventare molto piu' consapevoli di quello che mangiamo.
Il suo terzo consiglio è di cercare calma e tranquillità interiore, soprattutto quando si mangia, in quanto secondo lei, lo stress aumenta la trasformazione degli alimenti in grassi. Lei consiglia di dedicare tutta l’attenzione a gustare il cibo mentre si mangia. Ciò significa anche evitare di guardare la TV o avere discussioni animate durante i pasti. Cio' ci aiuta a sintonizzarsi meglio con i nostri corpi e di mangiare la quantita' giusta degli alimenti.
Il suo quarto consiglio è composto di 5 regole di base per l’alimentazione. Queste 5 regole sono: (1) mangiare cibi appena cucinati se possibile; (2) alimenti cucinati in piccole quantità per poche persone; (3) se possibile non sbucciate e non tagliate la verdurra e la frutta in pezzettini troppo piccoli; (4) mangiare gli alimenti che siete abituati a mangiare da vostra infanzia (alimenti e piatti locali e tradizionali); e (5) mangiare la frutta e la verdura cruda fresca secondo la stagione, ma solo come un mini pasto separato, e non durante o prima o dopo i pasti.
Il suo quinto consiglio è il nocciolo principale della sua dieta, da seguire con precisione, cura e regolarità. Questo consiglio e' composto di 4 principi di mangiare bene – questi 4 principi sono:
(1) Al primo risveglio alla mattina, non prendere ne il caffee o il thé come la prima cosa, invece mangiare un piccolo pasto entro i primi 10-15 minuti dal risveglio (lei consiglia di evitare completamente o almeno ridurre quanto possibile il thé o il caffee e le altre bevande con stimulanti come la caffeina, per ciò, evitate anche le bibite gassate come la Coca Cola). Secondo lei, ciò ci aiuta a aumentare il tasso di metabolismo del corpo, migliora la digestione e ci aiuta a andare di corpo. In generale lei sconsiglia di bere succhi di frutta e chiede di moderare il consumo della frutta. Se avete una voglia particolare di mangiare qualcosa che ha molte calorie, come un pezzo di torta, secondo Diweker, conviene mangiarne una piccola porzione (qualche volta), proprio alla mattina, appena alzati perché in quel momento il tasso di metabolismo è più alto e le calorie non aggiungeranno al grasso corporeo.
(2) Mangiare ogni 2 ore. Piccole porzioni o mini pranzi, ma ogni due ore secondo l’orologio. Lei consiglia di tenere snack come le noccioline o la verdura cruda o un pezzo di pane integrale in ufficio, per seguire questa regola. Secondo Diweker, ciò ci aiuterà a mantenere alto il tasso di metabolismo per tutto il giorno e a mangiare meno alla sera, quando il tasso di metabolismo di abbassa.
Lei suggerisce di tenere un diario per annotare ogni cosa, anche la più piccola cosa, che consumate durante la giornata per 5 giorni, per diventare consapevoli di che cosa mangiate effettivamente. Poi suggerisce di costruire una dieta bilanciata con carboidrati, proteine e grassi e di suddividere questa dieta in tanti mini pranzi da consumare ogni due ore.
Ovviamente, per essere efficace, bisognarebbe farsi aiutare da un nutrizionista per la costruzione della dieta, ma lei consiglia di non affidarsi dei professionisti che propongono le diete molto drastiche o le diete mono-cibo non bilanciate (tipo “mangiate solo cetrioli o solo frutta”).
(3) Aumentare le porzioni dei mini-pranzi e mangiare di più nei giorni quando siete più attivi, (attività fisiche). Nello stesso modo, ridurre le porzioni quando sapete che avrete meno attività fisiche.
(4) Non mangiare niente, assolutamente niente, per almeno due ore prima di andare a letto. Ciò è, prendete il vostro ultimo mini-pranzo almeno due ore prima di andare a dormire.
Comunque questa è solo una sintesi delle principali idee di questo libro, che ha molte altre riflessioni sul significato degli alimenti nel antico sistema indiano di benessere, il sistema ayurvedico, sugli alimenti da privileggiare o da evitare, e sulla costruzione della dieta. Per esempio, lei consiglia di fare gli eventuali esercizi o passeggiate, prima di mangiare. Invece dopo aver mangiato, lei suggerisce di non svolgere attività stressanti, per dare il tempo al proprio corpo di dedicarsi alla digestione.
Penso che una traduzione letterale di questo libro in italiano non sarà molto utile in Italia perché tutti i suoi esempi sono strettamente legati alla dieta indiana, e bisognerà rivederla per la dieta italiana. Ad un certo punto in questo libro, lei critica la nuova abituadine urbana in India di mangiare le pizze, secondo lei un cibo poco salutare, ma penso che lei ragiona sulle pizze americane fatte con la farina rafinata che si fanno nei locali delle multinazionali come il Pizza Hut o il Dominoes, nelle città indiane e che sono molto diverse dalle pizze che si trovano in Italia. Inoltre, se seguiamo il suo consiglio di “mangiare ciò che uno è abituato a mangiare da bambino”, in Italia dobbiamo ragionare proprio sulla dieta mediterranea.
Sto ancora ragionando se devo prendere sul serio i consigli di Diweker e tentare questa dieta perché anch’io mi sento sovrapeso e poco in forma. Comunque, non posso seguire nessuna dieta finché resterò in India, perche' faccio troppa fatica a dire no a tutti i dolci e le torte che mi portano i parenti.
Ma forse potrò sperimentare questi consigli quando tornerò a Bologna e poi vi dirò se hanno funzionato o meno!

giovedì 14 maggio 2009

Limiti della democrazia

Ogni volta che leggo un nuovo articolo di Arundhati Roy, continuo a pensarci su per molti giorni. E’ stato così anche questa volta quando ho letto il suo articolo “Tramonto della democrazia” sull’ultimo numero di Internazionale (8/14 maggio 2009).

Come sempre, Arundhati ha la capacità di esprimersi in un linguaggio molto poetico, anche quando le sue parole servono per evocare tragedie immani, morti, sofferenze e brutalità. Per esempio, leggete questa parte:
“Mi ha sempre colpito il fatto che il partito politico turco responsabile del genocidio degli armeni si chiamasse Comitato per l’unione e il progresso. Molti miei articoli parlano proprio del rapporto tra unione e progresso, ciòè, per usare un linguaggio più attuale, tra nazionalismo e sviluppo: le inattaccabili torri gemelle della moderna democrazia del libero mercato.”
A parte la sua consueta eloquenza che rende la lettura dei suoi scritti un piacere, l’articolo segue diversi filoni tematici già affrontati da Arundhati altre volte, anche se questa volta lei cerca di spiegare meglio la propria logica. Così, l’articolo parla dell’emarginazione dei poveri in nome dello sviluppo, della crescente elite della classe media che di fatto decide le politiche governative, del pericolo del partito conservatore induista e la sua politica di nazionalismo, religione e odio che semina morte e paura tra le minoranze etniche, dell’influenza dei vote banks e la frammentazione del popolo secondo le logiche degli interessi di gruppo, della feroce e sanguinosa repressione in Kashmir, ecc.

Comunque, non concordo con il titolo dell’articolo, “Il tramonto della democrazia”. Non penso che l’articolo parla propria del declino dei principi democratici in India, semmai parla dei limiti del sistema democratico comuni a tutti i paesi. Ieri si è concluso l’ultimo turno delle elezioni indiane e complessivamente il 60% dei 750 milioni di persone aventi diritto ha votato. I primi exit poll parlano di un pareggio tra i due schieramenti principali, quelli del partito del congresso da una parte e dall’altra, del Bharitya Janata party. Ma democrazia è viva e gode di ottima salute in India.

Qualche settimana fa proprio su Internazionale, Shashi Tharoor aveva scritto del miracolo delle elezioni indiane:
“Le elezioni sono lo spettacolo dell'India libera, e danno ai giornalisti stranieri l'opportunità di ricordare al mondo che l'India è la più grande democrazia del mondo. Ormai i suoi cittadini danno per scontato che ci saranno le elezioni, che saranno libere e trasparenti, e che produrranno una effettiva alternanza al potere.

La stessa cosa si può dire per pochissimi paesi in via di sviluppo, e ancora meno per quelli in cui regnano la povertà e l'analfabetismo. Questo potrebbe essere il vero miracolo indiano nelle prossime settimane.”
Se l’America rielegge Bush o se l’Italia elegge Berlusconi o Bossi, non penso che possiamo parlare del tramonto della democrazia in America o in Italia?

Fondamentalismi di parte? Giustamente Arundhati parla della virulenza dei fondamentalisti induisti nei confronti delle minoranze cristiane di Kandhamal in Orissa e il loro pogrom contro i musulmani nel Gujarat di Narendra Modi, ma penso che lei ignora volutamente certi aspetti problematici relativi ai fondamentalismi delle altre religioni in India.

Così quando lei parla di “induizzazione di dalit e adivasi”, lei tace sull’evangelizzazione aggressiva o sul crescente numero di madrasse (scuole islamiche) in alcune zone del paese. Per esempio, nel distretto di Kandhamal in Orissa, teatro degli attacchi dei fondamentalisti induisti contro i cristiani, negli ultimi 30 anni la percentuale dei cristiani nella popolazione è cresciuta da 5% al 30%. Un cambiamento così imponente della popolazione deve aver innescato tremendi mutamenti sociali? Che cosa ne pensa lei di questi cambiamenti?

Mentre lei parla giustamente di “decine di migliaia di cristiani vivono nei campi profughi”, penso che lei sminuisce ingiustamente l’impatto dei fondamentalisti islamici sugli indù in Kashmir. Li descrive soltanto come, “una specie di esodo della minuscola minoranza indù”. Ma siamo parlando di 400.000 persone che vivono nei campi profughi da circa 20 anni, dall’inizio degli anni novanta quando i fondamentalisti islamici iniziarono le loro attività in Kashmir? Sembra che lei usi due pesi e due misure per parlare della sofferenza umana.

Lei parla degli attacchi dei gruppi come il Bajrang Dal contro le donne nelle città di Mangalore, ma non dice niente riguardo gli attacchi dei fondamenti islamici contro la scrittrice Taslima Nasrin, originaria del Bangladesh e rifugiatasi in India, costretta a lasciare l’India.

Arundhati dichiara di non sostenere nessuna violenza ma se proprio deve scegliere, accetta come male minore quella dei rivoluzionari, quelli che lottano contro i poteri più forti. Non condivido questa scelta. Rifiuto il fondamentalismo dei maoisti che usa l’emarginazione e sofferenza dei poveri per giustificare la sua violenza. Rifiuto la violenza del fondamentalismo di tutte le religioni, non sono mali minori soltanto perché opera delle minoranze di qualche tipo.

E perché questa condanna solo di alcuni fondamentalismi e non degli altri?

In un recente articolo apparso sulla rivista indiana Outlook, Ramanath Guha, scrittore e storico indiano, aveva spiegato che secondo lui il fondamentalismo della maggioranza indù è più importante perché ha più influenza. Forse è vero se guardiamo globalmente, ma penso che nei singoli contesti, ogni fondamentalismo è uguale e altrettanto terribile, e va combattuto con uguale forza. Accettare che oltre ai fondamentalisti indù, vi sono fondamentalisti evangelisti o islamici, non sminuisce niente della gravità di nessuno. Come possiamo lottare contro un fondamentalismo mentre tacciamo sugli altri fondamentalismi?

Mentre leggevo l’articolo di Arundhati, pensavo anche alla situazione in Italia. Per molti versi, il partito conservatore induista si somiglia alla chiesa cattolica. Se il Vaticano parla delle radici cristiane dell’Italia e dell’Europa, il partito conservatore induista parla delle radici induiste dell’India. Mentre la chiesa parla di “pescare anime e espandere il regno di dio”, i conservatori induisti parlano sopratutto di fermare le conversioni religiose e di ritrovare la purezza antica. Come la chiesa, anche i conservatori indù parlano della moralità, della centralità della famiglia e del ruolo della donna. Ma in questo senso, forse tutte le religioni del mondo si assomigliano!

mercoledì 18 marzo 2009

Scoprire Yiyun Li

Era tanto che non avevo letto un libro così bello, come “Mille anni di preghiere” di Yiyun Li. Più gli anni passano, faccio sempre più fatica a finire i libri, anche quelli scritti da scrittori famosi e premiati. Invece, in questi giorni, mi costringo a non leggere i racconti di Yiyun in troppa fretta. Vorrei farlo durare quanto più possibile. Ha la capacità di costruire personaggi complessi e molto umani, coinvolti nelle trame complicate e allo stesso momento semplici e universali. 
Yiyun, nata a Beijing ora vive in Stati Uniti e scrive in inglese. 
Nel suo racconto "Principessa di Nebraska", che ha qualche elemento che vagamente somiglia alla trama di "Tutto su mia madre" di Pedro Almodovar, lei descrive il personaggio di Yang, l’ex Nan Dan (attore in ruoli femminili) dell’opera di Pecchino così: 
Il giovane aveva alzato lo sguardo verso di lei e Sasha aveva visto una strana luce nei suoi occhi. Le ricordavano quelli di un passero ferito che una volta aveva preso con sé durante un rigido inverno in Mongolia. I passeri sono una specie ostinata, e si rifiutano sempre di mangiare e bere una volta in gabbia, le aveva detto la madre. Sasha non le aveva creduto. Aveva tenuto l’uccellino rinchiuso per giorni e quello aveva continuato a lanciarsi contro la gabbia fino a diventare quasi calvo. Ciononostante, lei si rifiutava di liberarlo, ipnotizzata dai suoi occhi, selvatici e allo stesso tempo di una dolcezza inerme.
Anche se penso che i passeri non durano giorni senza acqua a cibo, e muoiono prima, ma mentre leggevo questo passaggio, pensavo che era bello questo modo di far capire la personalità di una persona. 
*** 
Ho letto un altro autore recentemente che mi è piaciuto. Si chiama Yi Munyol ed è Coreano. Ho letto il suo "L’uccello dalle ali d’oro" e la copertina dice che Yi è tra i più importanti scrittori Coreani di oggi. 
Non avevo mai letto un autore Coreano prima e ho preso il libro senza grandi aspettative. Invece la storia di un maestro di calligrafia che pensa al suo tormentato rapporto con il proprio maestro di calligrafia, mi è piaciuta.
***
Quest anno sono nella giuria del festival del cinema di Bologna (HRN festival) alla fine di marzo e non vedo l'ora di farmi un'indigestione di film!

sabato 7 marzo 2009

Programma: India di Ieri, India di Oggi

Il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere Moderne dell'Università di Bologna ha organizzato un secono ciclo di incontri-eventi sull'India. Questi incontri sono aperti al pubblico e si terranno presso la sala convegni del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere Moderne in Via dela Cartoleria 5, Bologna. Ecco il programma degli incontri:




domenica 1 febbraio 2009

I due mondi

Quello delle tradizioni e quello del nuovo. Il primo che si aggrappa al passato, alla storia, all’identità e il secondo che gode nel cambiamento, che si muta e trasforma continuamente. L’ho pensato, quando ho visto i due libri sulla cucina indiana. 
Il linguaggio è una strada con grossi buchi, dove rischi di cadere e restare intrappolato se non stai attento, sopratutto, quando parli in generalizzazioni. Una di queste generalizzazioni è la “cucina indiana”. Forse ogni famiglia indiana ha una sua cucina indiana, che si somiglia alle cucine degli altri, ma ha qualche tocco personale, che lo rende unico. Vi sono poi differenze regionali e statali, ulteriormente differenziate per le estrazioni culturali e religiose delle famiglie indiane, molto di più delle differenze tra le cucine delle diverse regioni italiane. 
I due libri sono – “Le ricette della tradizione vegetariana indù” di Jaya Murthy e Angela Fiorentini (2° edizione, edizioni ETS, 2008, 13,00 Euro); e “Bollywood in cucina” di Bulbul Mankani (edizioni Logos, 2008, 15,95 Euro, titolo originale The Bollywood Cookbook, 2006). 
Jaya è una cara amica che abita a Pisa, è di origine Kannadiga, ciò è della regione di Bangalore nello stato di Karnataka nel sud dell’India, ed è una delle autrici del libro “Le ricette della tradizione vegetariana indù”. 



Il suo libro rappresenta la visione tradizionale induista del rapporto tra l’uomo e la natura, dove l’alimentazione non è soltanto il piacere dei sensi e il gusto della vita, ma è anche il simbolo dell’unità essenziale tra tutti gli esseri viventi. 
Vandana Shiva, l’attivista e la sostenitrice indiana del rispetto della natura e della biodiversità, dice che i 33 milioni di devata (dei) della tradizione indù, ciascun devata rappresenta un elemento della natura e questa coniugazione tra sacralità e natura, costruisce le basi della convivenza tra gli esseri umani e tutti gli esseri viventi in uno spirito di rispetto e sostenibilità. In questa visione, la natura non è stata creata per essere sfruttata dall’uomo, ma è tutt’una con gli esseri viventi e non, dove la sopravvivenza di uno garantisce quella di tutti gli altri, e la scomparsa di ogni specie è una minaccia per tutti gli esseri. 
Spesso la “tradizione” è intesa come qualcosa di immutabile, un richiamo per il ritorno alle origini, ad uno stato di mitica purezza del passato. Personalmente non concordo con questa visione della tradizione, anche perché la storia ci insegna che il passato è tutt'altro che statico, immutabile e fisso. Alcuni degli ingredienti “tradizionali” delle cucine indiane, sono arrivati in India soltanto alcuni secoli fa, a partire dal peperoncino, patate, melanzane e pomodori. 
Ma se la tradizione è dinamica e mutevole, la globalizzazione ha definitivamente cambiato il suo tasso di cambio. Per tornare a Vandana Shiva, lei parla del rischio della “monocultura del pensiero”, dove gli infiniti aspetti della vita umana costruiti ed accumulati dall’uomo nel corso dei millenni che costituiscono le basi della biodiversità, è sotto pressione dalle avanzate delle multinazionali – quelle dei ristoranti a partire da Mcdonald e KFC, quelle delle grosse catene dei centri commerciali come i Walmart e quelle dei produttori di semi come il Monsanto. 



In questo senso, il libro di Jaya Murthy è importante perché parla di quelle tradizioni che non si trovano nei ristoranti indiani in giro per il mondo, che raccontano un mondo che poco alla volta cambia e scompare. 
Purtroppo, il libro ha poche immagini, per cui, per la maggior parte delle ricette dovrete immaginare il prodotto finale. Invece il libro ha una bella parte introduttiva dove si spiega la filosofia delle spezie, l’uso degli utensili, e un’introduzione alle cucine regionali dell’India. 
***

Cresciuto in una famiglia “mista” dove si incrociavano le tradizioni delle diverse regioni indiane, sono un ammiratore del meticciato. Penso che le nuove tradizioni che nascono, quando le culture si incontrano tra loro sono l’aspetto più bello della vita umana e in questo senso, mi piacciono alcuni aspetti della globalizzazione perché, possano dare la possibilità alle diverse culture di incontrare anche con pari dignità, rispetto reciproco e gioia, senza sentirsi minacciati o sopraffatti dagli altri. 



In questo senso, mi piace l’idea del libro di ricette di Bollywood. Il libro si presenta molto bene con le belle immagini ed i vivaci colori del mondo di Bollywood. 
Questa volta le ricette provengono da diverse regioni dell’India e ogni gruppo di ricette è accompagnato da un’introduzione ad un attore o un’attrice di Bollywood, i suoi film più importanti e le sue ricette preferite. 
L’idea sembra bella, ma alla fine, il libro mi ha deluso un po’. E’ una bella confezione ma non ha grande sostanza. 
Le foto sono bellissime, la presentazione degli attori è bella, il libro è bello da sfogliare, ma manca un po’ di anima. Le ricette sono spesso raccontate dai chef degli hotel dove questi attori vanno a mangiare, e tra queste dominano le ricette della cucina mughlai, la cucina dei ristoranti. Diverse ricette sono complicatissime da preparare, adatte sopratutto per i ristoranti a cinque stelle per giustificare prezzi alti. 



Per cui penso che “Bollywood in cucina” sia un bel libro da guardare, magari anche interessante per i fans di Bollywood, ma forse non è un libro per cercare le ricette. 

sabato 27 dicembre 2008

Il piacere dei libri

In questi giorni sto leggendo l’autobiografia di Margherita Hack, la famosa astronoma italiana (“Qualcosa di inaspettato – i miei affetti, i miei valori, le mie passioni”, Laterza & Figli, 2004). Quando l’ho detto alla mia moglie, il suo primo commento era, “Chi è? E’ quella che non crede in niente, quella che è completamente atea?” 
Sono rimasto un po’ sorpreso da questo commento. Ho già letto circa la metà del libro e non avevo visto Margherita Hack in questa luce. E’ vero che lei ha scritto di non essere un credente e che suo marito invece è molto credente, ma non l’avevo visto come il tratto principale della sua personalità. 
Penso che la percezione popolare delle personalità umane sia qualcosa di completamente imprevedibile, non riusciamo mai a dire perché una persona diventa famosa e quale tratto della sua personalità catturerà l’immaginazione popolare. 
E’ la prima autobiografia che ho mai letto, forse dovrei dire, che ho cominciato a leggere, nella mia vita. Non so perché non mi ero mai sentito attratto da questo genere di libri prima. 
Infatti, è stato un personaggio “famoso” che mi ha recentemente ricordato che esiste anche  questo mondo letterario che non avevo ancora esplorato. Il “personaggio famoso”, non è molto conosciuto in Italia ma è un nome importante tra gli amanti della musica classica indiana, la signora Ashwini Bhide Deshpandey. Ashwini era venuta a Bologna in novembre scorso per due concerti e avevo avuto l’occasione di parlarle. Ha una voce meravigliosa che mi aveva mandato in estasi. Durante la nostra chiacchierata, lei mi aveva raccontato che il suo libro preferito era la biografia di Marie Curie, premio nobel per gli studi sulla radioattività, scritto dalla sua figlia Eve Curie. (Nella foto Ashwini Bhide Deshpandey durante il concerto a Bologna)


Dopo questa chiacchierata con Ashwini, la prima volta che sono tornato alla biblioteca del nostro quartiere, ho cercato la biografia di Marie Curie ma non l’ho trovata. Invece ho trovato l’autobiografia di Margherita Hack. Penso che leggerò altre biografie, ho scoperto che è un genere che mi piace. 
Amo i libri, penso che siano fortunate le persone che lavorano nelle librerie e nelle biblioteche. Essere circondati da centinaia di libri, girare in mezzo a questi libri tutto il giorno, parlare dei libri e toccarli continuamente, vedere persone interessate ai libri, parlare con loro e aiutare loro a trovare il libro che cercano, cosa di più si può chiedere alla vita? 
Visitare la nostra biblioteca del quartiere Navile è molto piacevole. Loro ormai mi conoscono da tanti anni. Quando entro, c’è sempre qualcuno che si ricorda il mio nome, tutti sorridono, delle volte chiedono informazioni sui libri che ho portato in dietro, se mi era piaciuto o no, si chiacchiera un po’. Delle volte loro mi consigliano qualche libro, anche se non mi piace essere consigliato. Almeno una e delle volte due volte al mese vado alla nostra biblioteca del quartiere. 
Invece andare alla biblioteca centrale della Sala Borsa di Bologna è molto meno piacevole, forse perché è molto impersonale. La sala con il pavimento di cristallo trasparente e le rovine romane, sono bellissime e la scelta dei libri è veramente ampia, ma spesso finisco a sentirmi un po’ frustato in questa biblioteca.




Sabato scorso ero arrivato in Sala Borsa alle 09,30 e la biblioteca era ancora chiusa. Alle 10,00 aprirà, mi hanno detto. Ho passato il tempo a guardare i modelli delle proposte presentate per la nuova stazione di Bologna, esposti nella stessa  sala dove vicino al muro in fondo vi sono i banchi della biblioteca. Verso le 10,00 vi erano circa 30 persone che aspettavano l’apertura dei banchi per restituire i libri. 
Alle 10,00 in punto sono aperte le porte ed è uscito in fila un gruppo di addetti della biblioteca, spingendo qualche carrello. Che stile anglosassone e puntuale, molto professionale, ho pensato. Invece era solo un’illusione! 
Non funzionavano i computer. Forse, non si sapeva bene quale pulsante premere dentro la sala operativa per avviare il sistema. Hanno premuto un tasto e tutti i monitor si sono spenti. Dopo qualche prova, alla fine i monitor si sono accesi ma i computer sembravano bloccati. Gli addetti, la maggior parte dei quali erano dei giovani, sembravano non sapere cosa fare.  Tutti facevano delle prove, come fosse la loro prima volta alla biblioteca. 
Una di loro ci ha chiesto di portare pazienza e aspettare finché si risolvevano il problema. Sembrava irritata e risentita come la colpa fosse nostra che eravamo andati lì a tormentarli. Dopo una decina di minuti, una di loro è riuscita ad avviare il suo computer ma sembrava che tutto andava a rallento. Lasciandoci nella fila ad aspettare alcune persone arrivate dopo hanno approfittato da qualche postazione che era riuscita a far funzionare il suo computer, spostandosi nell’altra fila velocemente, non hanno un sistema per assicurare che le persone che arrivano dopo aspettano il loro turno. 
Una signora che stava dietro di me ha detto a bassa voce, “Forse potevano scrivere sul cartello che cominciamo lavorare alle 10,00 ma il servizio per il pubblico inizia alle 10,30.
Alle 10,20 alla fine sono riuscito a raggiungere una postazione. La signorina, molto bella, sembrava irritata e annoiata, con una smorfia sulla sua faccia per tutto il tempo. Forse era una lavoratrice precaria che c’è l’aveva con i responsabili per farle fare un lavoro che non le piaceva. O forse aveva dovuto alzarsi presto la mattina ed era incazzata con me. 
Sono uscita dalla Sala Borsa senza il normale senso di calore che di solito mi accompagna quando esco dalle biblioteche. 
Per mettermi di buon umore, sono andato alla nuova libreria Coop in via degli orefici. Un ottimo posto, bello e pieno di libri, con delle persone che sembrano interessate ai libri, qualche bel angolo per sedersi, bere un bicchiere di vino e chiacchierare e una vista mozzafiato dal soffitto trasparente, dove si vedono le torri di Bologna.



sabato 8 novembre 2008

Oroboro, Rossella Fortini

Non mi piace ricevere i libri in regalo. Quando vado in biblioteca non mi piace ricevere consigli su quali libri dovrei leggere. Devo controllarmi per non rispondere bruscamente, quando qualcuno pensa di conoscere i miei gusti e mi consiglia di leggere un libro. Mi piace andare a scegliere i libri da leggere a caso, scoprire nuovi temi e nuovi scrittori.

Così spesso i libri che ricevo in regalo non li guardo e li metto via. Poi succede che prende un libro dalla biblioteca, che mi piace e poi scopro di averlo già a casa tra i libri non letti solo perché l’avevo ricevuto in regalo.

Per cui mi rendo conto della illogicità del mio comportamento. Dall’altra parte, la consapevolezza della mia illogicità non è sufficiente per cambiarmi.

Così quando era arrivato un nuovo libro di poesia mandatomi dalla scrittrice, lo misi via senza aprirlo. Ieri mia moglie mi disse che aveva letto qualche poesia dal nuovo libro che era arrivato e che “sono delle poesie un po’ strane”. Non sapeva dire se le piacevano o no. Un altro di miei comportamenti illogici è che quando un libro non piace a moglie, spesso piace a me, perciò cerco di leggere quelli libri.

Così ieri sera ho preso il libro di poesie che avevo ricevuto. Si chiama Oroboro ed è scritto da Rossella Fortini, pubblicato da Corbo editore.

Di solito non leggo libri di poesie in italiano e in inglese, faccio fatica ad apprezzarli perché non capisco tutte le parole e poi faccio fatica a stabilire un rapporto emotivo con le parole. Una poesia letta con la logicità e razionalità mi sembra un anacronismo, ho bisogno di un rapporto emotivo con le poesie per apprezzarle.

Per questo quando ho preso il libro di poesie, Oroboro, pensavo già che non riuscirò ad apprezzarlo invece le poesie mi sono piaciute. A volte mi sembrano le parole scritte da un adolescente:

Pioggia,
quanta pioggia,
quanta
energia,
fulmini,
tuoni,
saette e ancor più

O quest altro:
Nella volta celeste
stagliano le loro braccia,
quasi a ringraziare Babbo
cielo, cosmo, sole,
luna, stelle,
ed ogni cosa,
che da essi
giunga
Altre invece possono sembrare scritte da un bambino. Hanno un gioco di parole e di rime meraviglioso che nella loro apparente semplicità scaturiscono emozioni profonde. Per esempio:

Non ti reco peso,
son sospesa,
son scalza, senza spesa,
in attesa senza attesa,
di Tua mano tesa.
Teresa.
Luna si spacca in due.
Dolcino freme,
preme,
gronda,
onda di fiume, senza sponda,
scoppa.
Questo gioco di parole, semplice e allo stesso momento profondo in alcune poesie, mi fanno pensare alle poesie di Gulzar, il poeta indiano che mi piace molto.

sabato 1 novembre 2008

Le poesie indiane “Gazal”

Conoscete una forma specifica di poesia orientale? A questa domanda, penso che molti di voi penserete subito agli Haiku giapponesi. Invece penso che quasi nessuno parlerà di Gazal, una forma specifica di poesie del subcontinente indiano. Come gli Haiku, anche il Gazal è una forma di poesia specifica con le sue regole e la sua architettura interna molto precisa.

Gazal (scritto anche Ghazal) è una poesia fatta di tante piccole poesie tutte sullo stesso tema. Ciascuna piccola poesia è composta di due righe ed è chiamata “sher” (pronunciata Scer). Ogni sher è una poesia completa in se stessa e può essere paragonata ad un Haiku. Per capire, ecco un “sher” da un Gazal scritto da Bahadur Shah Zafar, l’ultimo re Mughal dell’India il quale morì solo e isolato nel 1862 in una prigione inglese in Birmania (invece, il re di Birmania fu mandato prigioniero in India e questa storia è raccontata da Amitav Ghosh nel suo libro Palazzo di Cristallo):

Baat karni mujhe mushkil, kabhi aisi to na thi
jaisi ab hai teri mehfil kabhi aisi to na thi

(Parlare non mi era mai difficile così / le tue feste, non erano mai tristi così)

Queste due righe del primo sher di un gazal spiegano le 3 regole fondamentali di questa forma della poesia. Ogni sher deve rispettare queste regole:

(1) Beher: le due righe devono avere lo stesso Beher (lunghezza di suoni)
(2) Radif: entrambe le righe del primo sher devono finire con la stessa parola chiamata radif. Nel esempio di sopra, “thi” è il radif. In tutte le altre sher del Gazal, la seconda riga deve finire con il radif. Ciò è, nel esempio di sopra, dopo le prime due righe ogni altra riga finirà con “thi”.
(3) Kaafiya: è la rima del primo sher – entrambe le righe del primo sher devono avere la stessa rima. In tutte le altre sher del Gazal, solo la seconda riga deve rispettare la stessa rima (vedete l’uso delle parole “mushkil” (difficile) nella prima riga, “mehfil” (festa) nella seconda riga sopra e “o dil” (o cuore) nella quarta riga sotto.

Vediamo le successive due righe di questo Gazal:

Le gayaa chhin ke kaun aaj tera sabr-o-karar
Be-karaari tujhe ai dil kabhii aisi to na thi

(Qualcuno ha portato via la tua pazienza / mio cuore, non eri mai impaziente così)

In questo secondo sher, la prima riga rispetta la regola del Beher (lunghezza di suono) ma non ha il radif e non usa la stessa kaafiya che sono ripresi dalla seconda riga. Il primo sher è chiamato “Matla” di un Gazal.

C’è una quarta regola che oggi non viene sempre rispettata ed è la regola di “Makta”, ciò è una parola scelta dal poeta come il proprio pseudonimo, deve far parte dell’ultimo sher di ogni Gazal. Infatti la maggior parte di poeti di Gazal famosi sono conosciuti dal loro pseudonimo e spesso non si conosce bene il loro nome vero. In questo esempio, Zafar era lo pseudonimo scelto dal re Bahadur Shah. Per concludere questo esempio, vediamo l’ultimo sher di questo Gazal:

kya sabab tu jo bigarta hai Zafar se har baar
Khu teri hur-e-shama’il kabhi aisi to na thi

(Continui a scompigliare la ragione di Zafar /la natura dell’angelo della fiamma, non era mai così)

La poesia scritta da Zafar nella prigione mentre guardava la fiamma della candela è malinconica come tutti i Gazal. Non vi sono i Gazal felici, sono sempre tristi. Amore, solitudine, vino, sentimenti sono i temi più comuni nei Gazal. Gazal è nato come una forma di arte letteraria nelle corti dei re Mughal ed i più famosi poeti di Gazal erano musulmani i quali scrivevano in lingua urdu. Oggi i poeti di Gazal scrivono in molte lingue indiane, ma spesso scelgono il proprio pseudonimo dalla lingua urdu.

Uno sher di Zafar che mi piace molto è:

Na thi haal ki jab hum apni khabar, rahe dekhte auron ke aebo-hunar
padhi apni buraiyon par jo nazar, to nigah mein koi bura na raha

(Quando non ero consapevole di me stesso, guardavo i tratti buoni e cattivi degli altri / Quando ho capito me stesso, non riesco a vedere nessuno cattivo)

Recentemente ho letto un Gazal di Alok Srivastav dal suo libro Aamin (pubblicato da Rajkamal editore, Nuova Delhi, 2007) che mi è piaciuto molto. Il poeta scrive del padre:

Tumhare khoon se meri ragon mein khwab roshan hain
Tumhari aadataon mein khud ko dhalte meine dekha hai


(Tuo sangue illumina i sogni nelle mie vene / mi sono trovato a ripetere gli stessi tuoi gesti)

Lo scrittore di Gazal più famoso dell’India è Mirza Ghalib il quale viveva a Delhi ai tempi del re Bahadur Shah Zafar. Per concludere, ecco uno sher famoso di Ghalib (è l’ultimo sher di un Gazal per cui riporta il nome del poeta):

Ishk par zor nahin, hai yeh aatish Ghalib
Jo lagaye na lage aur bujhaye na bujhe

(Ghalib, non puoi controllare il fuoco dell’amore / non si riesce a appiccarlo e se c’è, non si riesce a spegnerlo).


La tomba di Ghalib a Nuova Delhi vicino Nizamuddin

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