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Immigrato o espatriato?

Mi piace leggere le riflessioni delle persone riguardo alla loro esperienza di essere immigrati. Leggendo le loro parole, qualche volta mi sembra di capirmi meglio, di dare un nome e una descrizione alle mie sensazioni.

Bharati Mukherjee ha lasciato India negli anni 1960 e si è trasferita prima in Canada e poi in America, dove insegna all’università. Ha iniziato a scrivere molto prima che gli scrittori d’origine indiana come Salman Rushdie, Vikram Seth, Jhumpa Lahiri, ecc. fosse di moda.


Recentemente ho letto il libro di racconti, “Episodi isolati” di Bharati Mukherjee, pubblicato in America per la prima volta nel 1985 (versione italiana 1992, Feltrinelli). Nella sua introduzione lei ha scritto riguardo alla propria esperienza di essere una scrittrice immigrata:
“L’ironia sembrava assicurare al tempo stesso distacco e superiorità rispetto a quei figli beneducati dell’era post-coloniale così simili a me, alla deriva nel nuovo mondo, incerti se ne avrebbero mai fatto veramente parte.
Se si è costretti a vivere nell’incertezza, se si è alla continua ricerca di segni, se si attende – rinunciando anno dopo anno, a pezzetti riluttanti di sé, aggrappandosi ai ricordi di un passato sempre più lontano – non si apparterrà mai ad alcun mondo.
… Per dirla in termini più brutali, in Canada ero spesso scambiata per una prostituta o una taccheggiatrice, non di rado pensavano che facessi la domestica e mi elogiavano con un certo stupore perché non avevo un accento cantilenante. La società nel suo complesso, o settori importanti di quella società, erano soliti considerare me, e a quelli come me, in maniera riduttiva e mutilante. Negli Stati Uniti, invece, vedo me stessa in quei reietti; mi riconosco in un articolo su una prostituta indiana di Trinidad; nel dirigente di successo che sente cassette di musica da film hindi mentre guida in direzione di Manhattan; nell’oscuro contabile che cerca di trovar marito alla figlia sbandata; nei professori universitari, nei domestici, negli studenti di scuola superiore, negli inservienti clandestini dei ristoranti che fanno cucina esotica. E’ possibile – aguzzando le orecchie e con la giusta attrezzatura – udire l’America che canta anche fra le pieghe della cultura dominante. Anzi potrebbe essere quello il miglior punto d’ascolto per i Whitman della prossima generazione. Per me, tutto ciò ha significato il passaggio dall’orgoglioso isolamento dell’espatrio all’esuberanza dell’immigrazione.”
In queste parole, Mukherjee espone il suo punto di vista sulla differenza tra un'espatriato e un’immigrato. Finché si sente un espatriato, ciò è, una persona venuta in un altro paese per un po’ di tempo che pensa di tornare al proprio paese, lei si sente calpestata e discriminata, ma quando decide di sentirsi un’immigrata, una che ha scelto di vivere in un altro paese, lei non si sente più isolata, riesce a identificarsi con gli altri immigrati, felice di aver fatto il salto, e si impegna con una certa gioia nella lotta per costruirsi una propria vita nella nuova patria.

Non capisco bene la differenza tra l’espatriato e l’immigrato che Mukherjee esprime in queste sue parole. Voglio dire, la capisco dal punto di vista della sua logica, ma non la sento come una spiegazione emotiva. Ma forse non è né anche importante questo? In fin dei conti, ciascuno di noi che cerca significati del proprio essere, ha bisogno di trovare una propria spiegazione!

***
Le storie che scrive Mukherjee, sono un modo insolito di vedere e descrivere la realtà. Per esempio, nella storia intitolata “La signora di Lucknow”, lei racconta di una signora musulmana, nata in India e cresciuta in Pakistan che vive in America e ha una storia con James, un signore americano. Ad un certo punto nella storia, la moglie di James torna a casa in anticipo e scopre la signora musulmana nuda nel suo letto:
Lei sedette sul letto, dalla mia parte. Mi fissò. Se quello sguardo mi avesse fatta sentire clandestina e odiosa, forse non avrei pianto, più tardi. Sollevò il piumino dai miei seni come farebbe un internista, e sbuffò di nuovo. “Si”, disse, “non nego che possa aver trovato in lei un certo interesse,” ma il suo sguardo attraversò il mio volto fino al cuscino sottostante. Poi si alzò, lasciando ricadere il piumino. Ero un’ombra senza spessore né colore, un’ombra tentatrice che si sarebbe dileguata verso una città brulicante di milioni di ombre simili quando la relazione con James fosse terminata."
Alla fine, quello che ferisce la signora nata a Lucknow è la sensazione che è troppo insignificante per essere presa seriamente dalla moglie del suo amante, “Lei ha riso di me. Si è presa gioco della mia passione.”

Come potete capire, Mukherjee ha capacità di entrare nella psiche umana e vedere cose in maniera insolita. E’ questo suo modo di far vedere lati meno esplorati che mi è piaciuto nei suoi racconti.

Commenti

Silvia Merialdo ha detto…
Sono molto interessanti gli estratti che hai riportato e leggerò senz'altro i suoi racconti.
Io sono stata "espatriata" per 4 anni e devo dire che in effetti l'atteggiamento emotivo è molto diverso (non so, quasi di superiorità: non ti devi compromettere troppo, sei lì per fare un'esperienza tu e non per dare qualcosa al paese in cui stai vivendo).
Non so veramente come sia essere "immigrato". Io spero che ci sia anche uno stadio successivo a quello di immigrato, quello in cui, seppur da "straniero", la tua casa ora è anche un po' nel nuovo paese. Certo questo è possibile solo se anche la gente ti considera veramente, non come succede nella "signora di Lucknow".
Non so se nel tuo caso è così, mi piacerebbe sapere un po' della tua esperienza di espatriato/immigrato in Italia, in particolare quanto l'atteggiamento degli italiani abbia influenzato il tuo modo di vivere lontano dal tuo paese.
(be', sempre se hai voglia di parlarne pubblicamente!)
Sunil Deepak ha detto…
Cara Silvia, penso che restiamo "immigrati" per sempre, nel senso di avere la consapevolezza del proprio trapianto, di aver messo delle radici anche se fragili, più o meno integrati.
Per me personalmente, essere immigrato vuol dire la separazione da alcuni rapporti affettivi. Invece sono sicuramente privilegiato per il processo di immigrazione - avendo la moglie italiana, ho anche una parte della famiglia "non immigrata". Non ho avuto esperienze traumatiche o dolorose da raccontare. Comunque, ci penserò su per ragionare in quali termini ne posso parlare! :-)
Silvia Merialdo ha detto…
Caro Sunil,
grazie per la tua risposta!

Immagino che debba sempre essere dura la separazione dagli affetti, da un mondo che, in un modo o nell'altro, ci si è lasciati alle spalle.

Io spero sempre che alla fine l'immigrazione possa essere una ricchezza (intendo per l'immigrato stesso e dal punto di vista di una conoscenza più ampia - i discorsi che si fanno sulla "ricchezza dell'immigrazione" mi fanno sempre un po' tristezza: si considerano le persone in base al loro valore economico e il punto di vista è solo quello del paese in cui si immigra).

Per esempio, leggendo il tuo blog, penso che il fatto di essere un indiano che vive in Italia ti abbia dato una prospettiva molto più ampia di chi invece ha sempre e solo vissuto nel proprio paese.
Non so se questa dimensione sia in grado di compensare il distacco affettivo (e forse i due piani non sono neanche confrontabili), ma mi piace pensare che ci sia una dimensione positiva nell'essere immigrati.
Sunil Deepak ha detto…
Silvia, l'altro giorno pensavo alla differenza tra "emigrato" e "immigrato", che sono due lati della stessa cosa. Questo tema è come un dente che da fastidio e continuo a rimuginare sopra! :-)

Penso che diventare adulti oggi, spesso vuol dire distacco da persone che volevi bene - parenti, famigliari, amici. Questo distacco è parte della vita anche quando non sei un immigrato, anche quando sei un italiano che continua a vivere in Italia e si sposta solo di un quartiere o di una città.

Oggi almeno puoi cercare di colmare il distacco con il telefono, con gli email, con i chat. Dall'altra parte, nella nuova città si costruiscono i nuovi legami. E poi arriva un giorno quando capisci che ormai, non potrai più vivere senza distacchi - se vuoi tornare agli affetti originali, dovrai allontanarti da nuovi legami che hai costruito.

Ne parlo in singolo ma se le persone si spostano per un paio di volte nella vita, questi distacchi si moltiplicano e significa che vorresti essere in tanti posti.

Personalmente mi mancano tanti posti e tante persone, ma lo prendo come un effetto inevitabile della vita e riconosco quello che dici, che questa esperienza mi ha cambiato, mi fa guardare il mondo con degli occhi diversi.
Silvia Merialdo ha detto…
Sunil,
penso anche io che "emigrato" ed "immigrato" siano due facce della stessa medaglia.
Per gli italiani sei "immigrato", per gli indiani sei "emigrato". E per te, dirai? Secondo me tutte e due, perché tu sei tutte e due, italiano e indiano.

Penso che la tua ricerca di parole che in un qualche modo ti definiscono sia molto importante, perché battezzare una condizione significa un po' anche capirla.
Penso però che forse una sola parola non possa andar bene e che ci debba essere per forza una serie di parole, una pluralità di definizioni che non sono in realtà in contrasto una con l'altra, ma che rappresentano solo punti di vista diversi per descrivere la stessa cosa: indiano, italiano, immigrato, emigrato, straniero, espatriato, cittadino, ecc...
Forse non avere un unico punto di vista può essere disorientante, ma per me il vero pericolo è invece continuare ad avere sempre lo stesso punto di vista senza saperlo cambiare.

A proposito, c'era un articolo su Internazionale della scorsa settimana a proposito dell'essere stranieri (a me è sembrato un po' superficiale, ma comunque...)

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