giovedì 10 ottobre 2019

Kashmir: Il Paradiso Imprigionato

Nel 17° secolo, Jahangir, l’imperatore Mughal visitò la valle di Kashmir e ne rimase incantato: «Se esiste paradiso sulla terra deve essere proprio qui». Sono più di 30 anni che quel paradiso è sotto assedio. Le storie di Kashmir sono uno groviglio e non è facile capire quale appartiene a chi, fin dove le storie raccontano la verità, dove si travestono e nascondono sotto i racconti immaginari.

Il 5 agosto 2019 un annuncio del governo indiano ha riacceso i fari su questa regione dimenticata.

Sono 3 le parti coinvolte in queste storie: la gente di Kashmir, l’India e il Pakistan.

Considerata la terra del culto di Shiva dai tempi antichi, l’islam arrivò e conquisto questa terra nel 14° secolo. La disputa fra India e Pakistan riguardo Kashmir iniziò nel 1947 subito dopo la partenza del governo coloniale inglese. L’annuncio del governo indiano del 5 agosto è soltanto l’ultimo atto di questa disputa.

È una storia lunga e complessa con colpi e contraccolpi.

Prima di farvi una spiegazione (semplificata) di questa storia e del significato dell’annuncio del governo indiano, vorrei iniziare con un chiarimento riguardo la valle di Kashmir.

La Valle di Kashmir

Lo Stato indiano di Kashmir con circa 13 milioni di abitanti è costituito da 3 regioni: Jammu, Ladakh e la Valle del Kashmir. Le dispute fra India e Pakistan riguardano la Valle di Kashmir: questa è la zona di conflitto non le altre due regioni.



Con circa 6,9 milioni di abitanti (dati del 2011) la regione della Valle di Kashmir rappresenta circa il 15% della superficie dello Stato ed è quella più popolosa. Circa il 96% della popolazione è musulmana, composta da 2 gruppi principali: il 75% sono Sunniti e il 25% sono Shi’a. A ovest questa regione condivide la frontiera con il Pakistan.

Con circa 5,3 milioni di abitanti (sempre dati 2011) la regione di Jammu rappresenta circa il 26% della superfice ed è la seconda per popolazione. Circa l’85% della popolazione di Jammu è induista mentre i musulmani si aggirano sul 7,5%.

Con solo 290.000 abitanti (il riferimento è sempre al 2011) Ladakh è scarsamente popolata. Circa il 46% della popolazione è musulmana, il 39% è buddhista e gli induisti sono il 12%. Al nord questa regione condivide la frontiera con Cina e Pakistan.

La disputa fra l’India e il Pakistan

Nell’agosto 1947 il Governo coloniale inglese aveva lasciato il subcontinente indiano ma prima di partire l’aveva suddiviso in due Paesi: India e Pakistan. Questa suddivisione riconosceva la domanda di una parte di musulmani di essere «un popolo diverso dagli altri indiani» che chiedevano un Paese solo per loro. All’inizio, il Pakistan era composto da due territori – Pakistan est (oggi Bangladesh) e Pakistan ovest – le due aree dove la maggioranza della popolazione era musulmana.

Nel 1947 il subcontinente aveva anche centinaia di principati e regni, i quali potevano scegliere se far parte dell’India o del Pakistan. Questa scelta riguardava soprattutto i regni che si trovavano vicino alle frontiere dei due Paesi, mentre quelli che erano completamente circondati da uno dei Paesi, di fatto non avevano questa scelta.

Il regno di Jammu-Kashmir con la maggioranza della popolazione musulmana (77%) aveva un re induista, Hari Singh. Lui non era sicuro se far parte dell’India o del Pakistan e aveva richiesto del tempo per prendere la sua decisione. Dopo alcuni mesi di attesa, le forze pakistane erano entrate e avevano occupato alcune parti della Valle del Kashmir, soprattutto nel nord ovest. Hari Singh che non aveva una forza militare per resistere, chiese l’aiuto al governo indiano e decise di far parte dell’India. Questa fu la prima guerra fra India e Pakistan per la valle del Kashmir.

Verso la fine del 1948, con l’aiuto delle Nazioni Unite, la guerra finì: i territori della Valle del Kashmir presi dal Pakistan sono rimasti sotto il suo controllo. Vige tutt’ora quella linea di controllo come frontiera, dove le due forze si erano fermate al momento del cessate il fuoco.

Le Nazioni Unite avevano chiesto un referendum fra la popolazione di Kashmir per decidere se volevano andare in Pakistan o restare in India, però non è mai stato organizzato. Secondo l’India, il referendum si deve fare in tutto il territorio della Valle del Kashmir, mentre secondo il Pakistan soltanto nelle parti rimaste in India.

Gli articoli 370 e 35A del Kashmir

L’articolo 370 della Costituzione, approvato nel 1954, garantiva l’autonomia dello Stato di Kashmir, inclusa una sua Costituzione separata. L’articolo 35A – anche esso approvato dal parlamento indiano nello stesso anno – dava poteri allo Stato di Kashmir di decidere i criteri per definire chi poteva diventare residente permanente dello Stato e i suoi diritti.

Scoppio delle violenze in Kashmir

Vi sono state tre guerre fra India e Pakistan per la Valle del Kashmir. La prima, già spiegata sopra, nel 1947-48. La seconda nel 1965 e la terza nel 1998-99.

Fino alla prima parte degli anni ’80, la situazione nella Valle del Kashmir era tranquilla, come testimoniano le scene dei numerosi film di Bollywood girati qui. In quegli anni, le persone del Kashmir chiedevano “azadi”, la possibilità di avere un Paese libero cioè di non essere parte né dell’India né del Pakistan.

Le violenze in Kashmir sono iniziate intorno al 1988-89. Negli anni ’80, gli Usa avevano sostenuto i Mujahideen pakistani per lottare contro i russi in Afghanistan. Dopo il ritiro delle truppe russe dall’Afghanistan nel 1988, molte di queste persone che credevano in un Islam radicale sono arrivate nella Valle del Kashmir. Uno dei loro compiti era reclutare giovani della Valle del Kashmir in India e mandarli nei campi di addestramento in Pakistan per diventare guerriglieri.

All’inizio degli anni ’90 vi erano più di 300.000 induisti nella Valle del Kashmir, conosciuti come i Kashmiri Pandit. Questi sono diventati i bersagli degli islamici radicali. Secondo i rapporti governativi più di mille Kashmiri Pandit sono stati uccisi mentre le loro case e negozi venivano distrutti e bruciati. La maggior parte di loro sono scappati dalla Valle del Kashmir e molti tutt’ora vivono nei campi profughi sparsi in India. Meno dell’ 1% sono rimasti nella Valle del Kashmir.

I mujahideen pakistani e i loro compagni nella Valle del Kashmir hanno iniziato ad attaccare le strutture e i servizi governativi, in particolare i poliziotti locali che erano visti come traditori. Si pensa che negli anni successivi alla fuga dei Kashmiri Pandit dalla Valle, circa 30.000 persone, la maggioranza musulmane, sono state uccise dagli islamisti radicali perché ritenuti favorevoli al governo indiano.

Il governo indiano aveva risposto con l’invio delle forze militari, le quali hanno poteri speciali che garantiscono immunità dai tribunali civili. Così dagli anni ’90 la popolazione vive schiacciata fra queste due forze: da una parte i guerriglieri che vogliono che la Valle del Kashmir diventi parte del Pakistan e dall’altra le forze militari indiane.

Secondo alcuni articoli, di recente un terzo gruppo si è aggiunto alla lotta, cioè le persone che si ispirano alla filosofia dello Stato Islamico (ISIS). Negli ultimi 4-5 anni nelle proteste si vedono sempre di più le bandiere e le rivendicazioni a sostegno del Califfato Islamico e le “chiamate” per stabilire lo Stato islamico in Kashmir con la legge della Shariat.

La posizione pakistana

La religione musulmana è stato il motivo della nascita di Pakistan e dall’inizio i politici pakistani hanno rivendicato il territorio della Valle del Kashmir perché sarebbe una parte della fraternità musulmana.

Nel 1958 in Pakistan vi fu il primo colpo di stato, seguito da diverse dittature militari. Nel 1973 il Pakistan è diventato un Paese basato sulla legge islamica. Negli anni di leadership del dittatore militare Zia-ul-Haq (1977-88) l’islamizzazione si è ulteriormente rinforzata. Risale a quegli anni l’approvazione della legge sulla blasfemia. Gli ultimi decenni hanno visto crescenti suddivisioni fra i vari gruppi di musulmani in Pakistan, per esempio tra i sunni e gli shi’a, e tra i barelavi e i deobandi, mentre altri gruppi di musulmani (come gli ahmadi e i  bohra) sono stati dichiarati “non islamici”.

Questi fattori lasciano poco spazio di manovra ai politici pakistani, anche perché i capi militari detengono tutt’ora molto potere. Avere Kashmir come parte del Pakistan è diventata una questione di orgoglio nazionale e sarà difficile per loro cambiare posizione.

Le decisioni dell’India

Il 5 agosto 2019 il governo indiano ha deciso di revocare gli articoli 370 e 35A: si è giustificato dicendo che entrambi questi articoli erano temporanei e dopo 65 anni è inutile il loro mantenimento. Inoltre si è deciso di separare la regione di Ladakh dallo stato di Kashmir, creando un territorio autonomo sotto la giurisdizione del governo nazionale. Queste risoluzioni sono state approvate da due terzi della maggioranza nel parlamento indiano. Di fatto, questo significa che lo stato di Kashmir con le due regioni (Valle del Kashmir e Jammu) è ora una parte dell'India come tutto il resto del paese.

Dal 5 agosto a oggi (31 agosto) nella Valle del Kashmir non c’è internet e le reti dei telefoni mobili. Dopo il 12 agosto poco alla volta in alcune parti della Valle il servizio di telefoni fissi è stato ripristinato. Molti leader politici e civili sono in prigione o in arresto domiciliare.

Le reazioni

Secondo i giornalisti pro-governativi, dato il continuo rinforzamento dei radicali islamici e dei simpatizzanti di ISIS, bisognava tentare con una strategia nuova in Kashmir e forse l’abrogazione degli articoli 370 e 35A darà una possibilità di avere pace in questa regione. Dicono che con circa 200 milioni di musulmani (stime 2018) India è il secondo Paese nel mondo per il numero di musulmani e non si può rischiare che il radicalismo islamico contagi il resto dell’India.

Inoltre i filo-governativi dicono che l’articolo 35A era discriminatorio e dava diversi privilegi agli uomini del Kashmir. Per esempio, secondo questo articolo, se un uomo di Kashmir sposava una donna lei acquisiva il diritto di vivere nello Stato mentre una donna di Kashmir perdeva il suo diritto di residenza se sposava un uomo forestiero.

Il primo ministro indiano, nel suo discorso per giustificare l’abrogazione dei due articoli, ha parlato soprattutto di aspetti discriminatori inerenti agli articoli 370 e 35A.

Invece secondo i critici, il governo si è comportato in maniera prepotente: avrebbe dovuto avviare un dialogo in Kashmir sulla necessità di abrogare gli articoli. Loro criticano l’arresto di leader politici e civili come il blocco di internet e dei telefoni cellulari.

Le popolazioni delle regioni di Jammu e Ladakh e nel resto dell’India hanno accolto queste decisioni positivamente mentre le principali critiche sono venute dalla Valle di Kashmir e dal Pakistan. I gruppi separatisti hanno giurato “lotta continua” fino alla realizzazione del loro sogno di diventare parte del Pakistan, minacciando attacchi alle strutture governative.

Comunque, con o senza gli articoli 370 e 35A, la situazione del Kashmir non cambierà nel prossimo futuro. Per il momento il blocco di internet e la mancanza di telefoni mobili hanno permesso alle autorità di mantenere il controllo perché senza i social media è difficile organizzare le proteste. Comunque il blocco di internet e dei telefoni cellulari non può durare in eterno e bisognerà vedere che cosa succederà allora.

domenica 14 aprile 2019

Ricerca Emancipatoria

Il 5-6 aprile 2019, ero a Milano al convegno “Essere Persona: La Disabilità nel Mondo” organizzato da AIFO, OVCI e Fondazione Don Gnocchi. In questo convegno ho parlato sul tema “Ricerca Emancipatoria ed Effetti Politici: barriere, discriminazione ed empowerment”.

La ricerca emancipatoria è un approccio innovativo e potrebbe essere di interesse per quanti operano a favore dei gruppi vulnerabili. Per questo motivo, in questo post presento alcuni punti della mia presentazione.

Tipologie di Ricerche

Quando si usa la parola “ricerca”, pensiamo subito ai laboratori e agli scienziati che svolgono delle attività complicate, difficili da capire. Di solito queste sono le “Ricerche Scientifiche”, dove i ricercatori devono mantenere un certo distacco da quello che studiano, per arrivare alle loro conclusioni in maniera neutra.

In campo sociologico, vi sono le “Ricerche Partecipatorie”, dove i ricercatori non sono distaccati dai loro soggetti. Anzi, in queste ricerche, i ricercatori coinvolgono e lavorano insieme alle comunità. Le idee del pedagogista e pensatore brasiliano, Paulo Freire, hanno influenzato lo sviluppo di questa metodologia.

Invece nella “Ricerca Emancipatoria”, sono le comunità stesse in prima persona a svolgere la ricerca. Il concetto di questa metodologia era stato proposto nel 1990 da Mike Oliver, un ricercatore e attivista inglese per i diritti delle persone con disabilità.

Ricerca Emancipatoria sulla Disabilità (RED)

Nella RED, le persone con disabilità sono formate come ricercatori e assistite dagli esperti per svolgere la ricerca. Loro ragionano sui propri problemi che vogliono approfondire e decidono la metodologia di raccolta di informazioni. Sono sempre loro che ragionano sulle informazioni raccolte, e ne traggono le conclusioni. Ciò significa che in una ricerca emancipatoria, le persone con disabilità hanno il potere decisionale su tutti gli aspetti della ricerca.

RED hanno bisogno degli esperti (compreso academici, specialisti, pedagogisti, e rappresentanti delle DPO) – essi hanno il compito di sostenere le diverse fasi della ricerca.

Le RED sono basate sul modello sociale della disabilità e seguono i principi della Convenzione Internazionale sui Diritti delle Persone con Disabilità (CRPD).

Realizzare RED

La metodologia della ricerca emancipatoria può essere utilizzata con tutti i gruppi vulnerabili, anche se la mia esperienza personale è focalizzata soprattutto sul tema della disabilità.

Verso la metà degli anni 1990, i primi progetti di RED sono stati realizzati da persone con disabilità che studiavano nelle università inglesi. Da allora, il concetto è stato adottato da altri e sperimentato in diversi paesi sviluppati. Alcuni ricercatori di RED, che studiavano nelle università occidentali, sono andati nei paesi in via di sviluppo per svolgere le loro ricerche in collaborazione con le comunità locali.

Invece sono state rare le esperienze di RED, sviluppate e sperimentate interamente nei paesi meno sviluppati. Tra le organizzazioni impegnate nella cooperazione internazionale, AIFO ha colto l’innovazione di questa metodologia ed ha cercato di sperimentarla nei suoi progetti.

Nei progetti AIFO, tra il 2009-2019, sono state realizzate 7 iniziative di RED. Voglio presentare brevemente 6 di queste iniziative, nelle quali ero coinvolto, realizzate in India, Palestina, Italia, Liberia e Mongolia.

RED – SPARK, India (2010)

Il progetto aveva identificato e formato come ricercatori 16 persone disabili (8 donne e 8 uomini). Altre 8 persone disabili erano state formate per svolgere il ruolo di facilitatori durante le riunioni. Tra questi 24 individui, vi erano persone con diversi tipi di disabilità compreso quelle intellettuali, quelle dovute alla lebbra e quelle legate alle malattie mentali. Qualcuno di loro aveva frequentato l’università mentre alcuni di loro erano analfabeti. Rappresentavano vari gruppi di età.

I ricercatori avevano identificato 16 temi prioritari e poi organizzato incontri residenziali di 4 giorni su ciascun tema. Su alcuni temi, vi erano riunioni separate degli uomini e delle donne. Circa 350 persone con disabilità avevano partecipato alle riunioni residenziali e complessivamente la ricerca aveva coinvolto circa 3000 persone.



La foto sopra presenta i ricercatori con alcuni membri del gruppo degli esperti, che comprendevano ricercatori academici, specialisti e rappresentanti delle DPO. Nella foto c’è anche il dott. Enrico Pupulin, ex-responsabile del reparto di Disabilità e Riabilitazione dell’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS), il quale ha dato un grande contributo allo sviluppo della metodologia di Riabilitazione su Base Comunitaria ed è stato uno dei primi sostenitori della RED.

RED – Bidar, India (2013)

Era focalizzata sul tema della violenza subita dalle persone con disabilità. Tra i ricercatori, vi erano diverse persone con personali esperienze di violenza.

Questa ricerca aveva riscontrato diversi problemi. Anzitutto, aveva i tempi molto stretti e non vi era sufficiente tempo per il follow-up. Dall’altra parte, la ricerca aveva fatto emergere una situazione grave e diffusa di violenze subite dalle persone con disabilità, con poche possibilità di trovare un sostegno nelle famiglie e nelle comunità. La situazione richiedeva tempo e risorse per rispondere ai bisogni emersi, in collaborazione con le altre organizzazioni presenti sul territorio.

Inoltre, la parte quantitativa della ricerca con le sue analisi statistiche era troppo difficile da capire per i ricercatori.

La foto sopra presenta un momento durante la formazione dei ricercatori mentre essi esercitavano le tecniche di fare le domande durante le interviste. “Role Play”, ciò è, i giochi di ruolo, sono una parte fondamentale della formazione dei ricercatori.

RED – Gaza, Palestina (2014)

Ero coinvolto soltanto nella prima fase di questa ricerca, soprattutto nella formazione delle ricercatrici. Questa era la mia unica esperienza di RED che coinvolgeva soltanto le donne con disabilità.

Il gruppo delle ricercatrici comprendeva 4 donne sorde (che si vedono nella foto sotto), che è uno dei gruppi difficili da coinvolgere in una RED perché devono essere accompagnate da persone che possono capire e tradurre il linguaggio dei segni, spesso difficili da trovare nelle aree rurali dei paesi meno sviluppati. In questo caso, il progetto era riuscito a garantire il sostegno dei traduttori.



Questa ricerca aveva evidenziato come le barriere legate alle disabilità si sommavano alle barriere imposte dalla difficile situazione politica e sociale in Palestina.

RED – Ponte San Niccolò, Italia (2016-17)

Questa ricerca riguardava le persone anziane che vivono nel comune di Ponte San Niccolò alle porte di Padova nel nord-est di Italia, ed è stata la mia unica esperienza di RED che non si limitava al tema della disabilità ma aveva un focus più ampio.

Questa ricerca coinvolgeva diversi esperti dell’Università di Padova e dopo una fase iniziale svolta dalle persone anziane, era stata allargata ad uno studio quantitativo più approfondito sulla situazione degli anziani, svolto da volontari appositamente formati.

Per questo motivo, il ruolo delle persone anziane coinvolte nella ricerca era limitato solo alle prime fasi dell’indagine e da un’iniziativa RED, si era trasformata in una ricerca scientifica.

RED – Mongolia (2018)

Questa ricerca è tutt’ora in corso. La ricerca coinvolge circa 35 persone giovani con disabilità, tutti abitanti della capitale Ulaanbaatar, che sono stati formati come ricercatori. Tra loro vi sono molte persone con disabilità gravi compreso una persona con tetraplegia e un gruppetto di persone con paralisi cerebrale. In generale, loro hanno un livello alto di istruzione, compreso alcune persone con un dottorato.

Il progetto è limitato alle aree urbane. Durante l’approfondimento su alcuni temi, qualche ricercatore ha voluto affrontare anche gli aspetti quantitativi. Un altro aspetto innovativo di questa ricerca è la presenza di alcuni funzionari governativi e alcuni quadri delle DPO come ricercatori - anche se all’interno del gruppo, loro sono presenti in veste individuale e non come rappresentanti delle istituzioni. Sarà interessante valutare l’impatto di questa presenza istituzionale in una RED.



La foto sopra presenta il gruppo degli esperti, dominata dalle donne, che sostiene questa ricerca e che comprende alcuni academici, alcuni funzionari governativi, qualche specialista e qualche rappresentante delle DPO.

RED – Liberia (2018)

Anche questo progetto è tutt’ora in corso e dovrebbe concludere nel 2020. La ricerca svolge in 3 distretti rurali del paese e comprende alcune zone con grandi difficoltà logistiche. Il gruppo di ricercatori è piccolo (12 persone, 75% maschi) e molti di loro rappresentano un basso livello socioeconomico con poca istruzione.

La Liberia ha affrontato lunghi anni di guerra civile finita 15 anni fa e una grave epidemia di Ebola tra 2014-16. Entrambi questi eventi continuano avere i loro riflessi sulla vita delle persone del paese e influiscono anche sulla ricerca.



Le persone scelte come ricercatori, sono soprattutto persone con disabilità fisiche mentre le altre disabilità sono poco rappresentate. Nelle prime indagini condotte da questi ricercatori, si evidenziano molte difficoltà sia per la raccolta di informazioni che per capire il ruolo dei ricercatori.

Mongolia e Liberia

In confronto ai ricercatori in Mongolia, il gruppo Liberiano parte con molti più svantaggi e barriere, anche se i suoi ricercatori hanno disabilità meno gravi.

Le informazioni raccolte, il livello di discussioni e le strategie proposte per superare le barriere identificate, sono molto diverse nelle ricerche in corso nei due Paesi.

Nonostante tutte le differenze, penso che ciascuna ricerca, in modo suo, innesca significativi processi di empowerment tra i partecipanti. Queste differenze sono la ricchezza della RED ed è importante riconoscere e valorizzare queste differenze per cogliere i cambiamenti che queste ricerche possono portare.

Gli obiettivi di una ricerca emancipatoria sono scelti dai ricercatori. Se i ricercatori hanno un basso livello di istruzione e vivono nei paesi con poche infrastrutture e servizi, i loro obiettivi, le loro capacità di raccogliere informazioni e le loro strategie proposte per superare le barriere, saranno diverse da quando i ricercatori sono persone istruite e vivono nei paesi più sviluppati.
Informazioni Raccolte Nelle RED

In generale, le ricerche emancipatorie focalizzano sulle informazioni qualitative. La metodologia RED non è adatta alle indagini quantitative. Come spiegato sopra, in qualche ricerca vi sono individui con capacità di lavorare anche sui dati quantitativi, ma difficilmente i gruppi riescono a ragionare sopra e capire il significato di questi dati.

Spesso gli esperti sono delusi quando guardano le informazioni raccolte in una RED, soprattutto nelle fasi iniziali. Invece con tempo, la qualità delle informazioni raccolte migliora, e si vedono i collegamenti tra le caratteristiche specifiche sociali e culturali delle persone e le barriere che essi incontrano.

Oltre alla raccolta delle informazioni in maniera sistematica, l’obiettivo della RED è di promuovere riflessioni sul significato di quelle informazioni tra i ricercatori e le comunità. Loro ragionano su che cosa possono fare per superare le difficoltà identificate. Sono queste riflessioni che promuovono l’empowerment delle persone e spesso stimolano la nascita di azioni comunitarie. In questo senso, una ricerca emancipatoria, spesso diventa una “ricerca azione”, anche se è difficile prevedere o programmare le azioni che potrà far scaturire.

Difficoltà di Realizzare una RED

Spesso le iniziative di RED sono parte di programmi più ampi. Il personale di questi programmi e gli esperti che sostengono la ricerca, possono avere delle aspettative non realistiche verso il suo processo. Inoltre, spesso questi non capiscono la gradualità dei cambiamenti e qualche volta intervengono con troppa forza, interrompendo il processo.

L’obiettivo principale di RED è di promuovere l’empowerment delle persone ma non sappiamo come misurare questo empowerment. Alcune metodologie sono state proposte per misurare l’empowerment, per esempio, dalla Banca Mondiale, ma esse sono difficili da applicare nel contesto di RED. A livello aneddotico, possiamo avere molte storie raccontate dalle persone coinvolte nella RED che testimoniano il loro empowerment, ma queste storie non sono sufficienti come indicatori.

Un’altra difficoltà riguarda l’identificazione della persona che dovrebbe documentare tutto il processo della ricerca. Per svolgere questo lavoro, idealmente abbiamo bisogno di qualcuno istruito e capace, che può ascoltare i ricercatori con empatia senza cercare di influenzarli o di dominarli – e questo è difficile.

Le discussioni durante le riunioni formali di RED sono una piccola parte del suo processo. Quando parte il processo di ricerca, vi può essere una grande vivacità di discussioni e attività tra i ricercatori e tra loro e le comunità, ma tutto questo avviene fuori dalle riunioni formali e non sempre i responsabili della documentazione hanno la possibilità di raccogliere queste informazioni.

In fine, le discussioni e le interviste sul territorio avvengono nelle lingue locali. Nelle riunioni formali, i tempi sono limitati e spesso i ricercatori non sanno esprimersi bene. Alcune parole e concetti delle lingue locali sono difficili da tradurre. Tutte queste difficoltà creano barriere per la raccolta di queste informazioni nei rapporti.

Per esempio, in un progetto di RED in India, i ricercatori avevano raccolto 18 ore di testimonianze video delle persone dei villaggi. La maggior parte di queste testimonianze erano nei vari dialetti della lingua locale, che variano secondo i villaggi. I traduttori basati nelle città non erano in grado di capirli. Per la loro trascrizione bisognava girare nei villaggi e parlare con le persone locali, il che richiedeva tempo e risorse. Per cui non è stato possibile utilizzare queste testimonianze per documentare la ricerca.
Conclusioni

La ricerca emancipatoria non può sostituire le ricerche tradizionali, ma essa può fornire informazioni che sono difficili da raccogliere in altri tipi di ricerche. Nei programmi comunitari, questo approccio alla ricerca può promuovere la partecipazione e inclusione dei gruppi vulnerabili, e allo stesso momento, può stimolare l’avvio di diverse attività da parte dei gruppi emarginati per contrastare la propria esclusione.

Ricerca emancipatoria può essere realizzata soltanto come un’attività inserita dentro un programma comunitario più ampio, perché richiede la piena partecipazione della comunità. Essa deve essere vista come un processo e ha i suoi tempi di realizzazione.

RED può fornire informazioni specifiche legate al contesto e alla cultura locale delle persone, difficili da raccogliere altrimenti, e promuove empowerment delle persone disabili coinvolte nella ricerca.

La metodologia della RED è nuova e ha bisogno di essere sperimentato. Diversi aspetti della RED, come per esempio, la misurazione dell’empowerment, hanno bisogno di essere definiti.

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lunedì 18 marzo 2019

Pagine del Diario: Viaggio in India

Ho passato in India i primi due mesi di questo anno, in parte per lavoro e in parte per qualche settimana di ferie con le mie due sorelle. Avevo due impegni di lavoro - visitare un vecchio lebbrosario e condurre una piccola ricerca sulla disabilità.

La visita non è andata come l’avevo programmata. Sono stati dei malintesi con il progetto dove dovevo condurre la ricerca e alla fine ho dovuto rinunciarla. Inoltre, la nostra riunione famigliare è stata fortemente condizionata dall’improvvisa scomparsa di una cugina, alla quale ero molto legato.

Con questo mio diario, voglio condividere alcune mie impressioni di questo viaggio, a cominciare dall’India che cambia.

L’India che cambia

La costruzione della metropolitana di Delhi fu iniziata nel 1998 e il primo piccolo tratto fu completato soltanto nel 2002. Oggi 17 anni dopo, il sistema comprende 8 linee che insieme coprono 327 chilometri e 236 fermate, e i lavori continuano.

Infatti, la crescita del sistema è così veloce che dovete continuamente cercare nuove mappe della metro sull’internet perché le mappe stampate non riescono a starci dietro. Queste linee hanno creato un servizio di trasporto pubblico che arriva dappertutto in questa metropoli di 19 milioni di abitanti.



Viaggiare con la metropolitana è il migliore modo per vedere il cambiamento in atto in India. Nei suoi treni si vede un’India prevalentemente giovane e dalle loro facce è difficile capire le loro provenienze. La maggior parte, quando non parlano con gli altri, hanno gli occhi fissi sui cellulari, spesso a guardare qualche video.

India è sempre stata una società molto gerarchica. Invece nella metro, i ragazzi provenienti da famiglie meno benestanti si siedono accanto a quelli ricchi ed è difficile distinguere tra di loro. Le caste non sono più importanti. I ragazzi ricchi parlano soprattutto in inglese e hanno accenti diversi. Mentre quelli delle famiglie meno benestanti parlano soprattutto le lingue indiane. Tutti sembrano molto sicuri di sé.

Fuori dalla metropolitana, la città sta cambiando con nuove autostrade, cavalcavie e strade sopraelevate, tutte piene di macchine e un crescente inquinamento. Le 10 dieci città più inquinate del pianeta sono tutte in India. Le nuove periferie sono piene di centri commerciali e nuovi grattacieli che spuntano come funghi giganti da tutte le parti.



È soltanto nella vecchia città di Delhi che uscire dalla stazione di metropolitana sembra portarci direttamente dal ventunesimo secolo al medioevo. Nelle stazioni della metropolitana, con le loro esposizioni d’arte e le piastrelle lucidate, potrete pensare di essere a New York. Invece tornati sulla superfice, il panorama della città vecchia con il groviglio dei fili elettrici e il traffico caotico con le immancabili mucche è rimasto quello di sempre.

E i poveri?

Si dice che la povertà è diminuita e in generale, l’affermazione sembra vera, soprattutto nelle città grandi. Invece nelle città più piccole, nelle aree rurali e tra i gruppi indigeni che vivono nelle foreste, i poveri si vedono ancora, ma meno di prima.

Una sera in una piccola città nel sud dell’India ho avuto un'incontro particolare. Avevo un cestino con la mia cena che mi ero fatto preparare dall’albergo ed ero seduto su una panca non lontano dalla stazione ferroviaria. Dovevo aspettare qualche ora per il mio treno, così decisi di mangiare. Poco dopo vidi dalla coda dell’occhio, un piccolo gruppo di persone a passare davanti. Il gruppo si fermò poco dopo e uno di loro si girò verso di me.

Aveva forse 17-18 anni. Era magrissimo con la faccia scavata e guardava con desiderio il cestino che tenevo sulle gambe. Suo sguardo fu così intenso e supplichevole che non potei resistere - ho allungato il cestino verso di lui. Preso il cestino, il gruppetto si è subito allontanato. Tutto era successo in un attimo. Soltanto dopo qualche minuto avevo pensato che potevo accompagnarli alla stazione e offrirli qualcos’altro da mangiare, ma erano già spariti tra la folla.

Ogni volta che penso allo sguardo di quel ragazzo, mi commuovo.

Azam, il Bambino Barbiere

Vicino alla casa di mia sorella, c’è il negozio di un barbiere dove vado di solito per farmi tagliare i capelli. Questa volta quando sono arrivato al negozio, non c’era il solito ragazzo. Al suo posto c’era un ragazzino che dichiarava di avere 15 anni, ma mi sembrava molto più giovane. Lui mi ha assicurato che aveva già molta esperienza e sapeva il mestiere.

Era basso e per tagliare i miei capelli, dovevo abbassare le mie spalle e farmi andare giù sulla sedia, altrimenti non riusciva ad arrivare alla parte superiore della mia testa.

Lui si chiamava Azam e veniva da un villaggio nei pressi della città di Rampur, dallo stato di Uttar Pradesh. Aveva studiato soltanto fino alla prima media. Mi aveva raccontato che non gli piaceva studiare e anche se suo padre non voleva che lui abbandonasse gli studi, lui aveva preferito imparare il mestiere di barbiere e cominciare a lavorare. Mi ha detto che era contento della sua scelta. Mi aveva parlato anche della sua famiglia, della sua mamma e del piccolo figlio del fratello, al quale voleva bene.

Mentre mi parlava della famiglia, per qualche minuto, era scomparsa la sua maschera di ometto sicuro di sé. Sembrava il bambino che era, al quale mancava la mamma e la famiglia.

Un’Immersione nell’Arte

Ero di passaggio a Kochi, dove era in corso il biennale internazionale d’arte, e così ho potuto visitare i vari luoghi della mostra. Vi erano molte opere che mi sono piaciute. Ho apprezzato particolarmente le opere di Cyrus Kabiru (Kenya), Durga Bai (India), Georges Rousse (Francia) e Heri Dono (Indonesia).



Una mattina ho avuto una lunga discussione sul mondo dell’arte nell’India odierna con l’artista Raju Sutar, venuto da Pune. Lui aveva curato una mostra speciale al Biennale, che era intitolata “Anche i pensieri sono materia”. Era una discussione molto intesa e animata. Amo questo tipo di incontri non programmati.

Oltre a Kochi, questa volta ho trovato una vivacità di eventi artistici in India che prima non c’era. Per esempio, durante la mia permanenza a Delhi, vi è stata la fiera nazionale dell’arte, il festival dell’arte Imagine e il festival dell’arte di strada "Lodhi Street Art Project".

Una mattina, sono andato a girovagare per le strade di Lodhi Colony, un quartiere di Delhi dove vivono i dipendenti pubblici e dove il progetto Lodhi Street Art era in corso con alcuni artisti indiani e internazionali, a creare arte sui muri delle case. Se siete in visita a Delhi e avete una mattina libera, andate a passeggiare per le strade di Lodhi Colony, vicino ai giardini Lodhi, dove potete visitare alcune tombe molto belle del 14° e 15° secolo. Le opere murarie si trovano sulle strade che incrociano con Jorbagh road nella zona che va da Meherchand Market a Khanna Market (potete trovare entrambi i punti sul Google Maps).



La Scuola di Kalamandalam

Il centro di Kalamandalam nei pressi della città di Thrissur, è famosa per l’insegnamento delle danze classiche e della musica tradizionale. Avevo sentito parlare di questa scuola da alcuni amici. Ho passato un giorno a visitare questo centro, ed è stata una visita emozionante.

Alla mattina, gli studenti si dedicano alle lezioni pratiche nella zona “kalari” del centro mentre in pomeriggio vi sono le lezioni teoriche nelle aule. Per cui, dovete andarci alla mattina (visitatori sono ammessi dalle 09,30 in poi) e visitare la zona Kalari della scuola, dove sentirete il suono dei tamburi di vari tipi e dove troverete i ragazzi di varie età impegnati in danze, canti e musica. Potete guardare dentro le aule dalle enormi finestre o eventualmente appostandovi in un angolo delle aule. Le lezioni pratiche finiscono alle 13,00.



Ho passato 3 ore magiche in questa scuola e mi piacerebbe molto tornarci. La lezione che mi ha emozionato di più era quel del canto in stile carnataka. Sentire l'insegnante tessere dei disegni molto complessi con la sua voce e poi, sentire gli studenti che cercavano di ripeterli, era esilerante.

I Templi di Halebidu e Belur

Il lebbrosario che dovevo visitare era nel distretto di Hassan, nello stato di Karnataka nel sud dell’India. Questa è stata un’opportunità per visitare i templi di Halebidu e di Belur, costruiti tra il 9° e il 12° secolo e riconosciuti dall’UNICEF come patrimonio dell’Umanità. Le pareti dei templi in entrambe le città sono ricoperte da bellissime sculture. L'immagine sotto è delle sculture dal tempio di Belur - la donna con uccellino - e dà un'idea della bellezza di questi templi scolpiti in pietra.



I templi sono molto belli, e sono poco conosciuti, per cui hanno pochi visitatori internazionali. Per esempio, in un tempio del tredicesimo secolo a Halebidu, quando sono arrivato, ero l’unico turista insieme ad alcuni ragazzi locali che probabilmente avevano marinato la scuola, e si prestavano a farmi da guida.

Il raduno sacro di Kumbh

La nostra vecchia casa paterna era nella città di Prayagraj (vecchio nome Allahabad). Una delle mie sorelle era nata in quella città. È una delle 4 città indiane dove si tiene il grande raduno di Kumbh ogni 12 anni, che riunisce milioni di indiani.

Il raduno di Kumbh è legato ad un vecchio mito che parla del nettare dell’immortalità caduto giù da un vaso (kumbh) in 4 luoghi diversi dell’India. Prayagraj è il primo e il più importante di questi 4 luoghi.

Anche mia cugina Mini didi era nata in questa città. Aveva insegnato all’università di Delhi ed era andata in pensione qualche anno fa. Il 16 febbraio, mentre era a pranzo presso la casa di amici, aveva avuto un malore ed era deceduta improvvisamente. I suoi due figli che erano negli Stati Uniti, erano tornati in India per il suo funerale e avevano voluto portare le ceneri della loro mamma a Prayag per disperderle nel Gange, dove stava per finire il raduno di Kumbh.

Quest anno il raduno è durato 50 giorni e in questo periodo, secondo il governo, intorno a 240 milioni di persone hanno visitato Prayag per fare un bagno nel Gange, sopratutto nella zona dove il Gange si riunisce con il fiume Yamuna.



Io e le mie 2 sorelle, eravamo a Delhi. Abbiamo accompagnato i due ragazzi in questo viaggio e così per la prima volta nella vita ho partecipato al raduno di Kumbh. Avevamo prenotato alcuni tendoni nell’enorme città delle tende allestita per i pellegrini sulle rive del Gange. Quando siamo arrivati a Prayag, oramai il raduno era finito, ma comunque, vi erano ancora più di un milione di pellegrini accampati in questa zona.

La nostra permanenza a Prayag era molto breve. Il momento più emozionante di questo viaggio per me era quello di vedere la casa dove era nato il mio papà e dove era arrivata mia mamma come sposa dopo il matrimonio. Quando avevo qualche anno, ero già stato in quella casa, ma questa era la prima volta che l’avevo vista da grande.

Il Teatro di Strada

Tra le diverse forme di arte, il teatro è quello che mi attira meno. Invece questa volta ho avuto l’occasione di vedere alcuni spettacoli di teatro di strada realizzati dagli studenti universitari di Delhi e li ho trovati molto coinvolgenti.

Spesso il teatro di strada è utilizzato per parlare di problemi sociali. Diverse scuole universitarie di Delhi hanno gruppi teatrali molto attivi. Gli spettacoli che ho guardato toccavano temi molto diversi tra di loro – dalla scomparsa delle lingue parlate dalle minoranze etniche alla violenza sessuale. E' stata un'esperienza molto coinvolgente.



Conclusioni

Sono rimasto in India per quasi due mesi. Ho potuto fare poco di quello che avevo programmato, ma è stata una visita densa di esperienze. Dalle mostre d'arte alla danza e al teatro di strada, le visite ai vecchi templi di Halebidu e Belur, e la visita al raduno di Kumbh, erano tutte esperienze intense.

Mentre, io e mia sorella venuta dall’America, ci preparavamo a rientrare, era scoppiata una disputa tra India e Pakistan. Qualcuno parlava dell'imminente guerra. Invece sembra che alla fine è prevalso il buon senso.

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