Quando è iniziata la sessione con Arundhati Roy e John Berger, mi sentivo un po' in colpa. Avevo sperato di andare a Ferrara al festival di Internazionale, invece non ero riuscito. Alla fine, avevo dovuto accontentarmi di guardare qualche sessione sull'internet, ma ero rimasto deluso dal fatto che il link per la trasmissione in lingua originale non funzionava.
Volevo vedere l'incontro con Arundhati, ma volevo sentire la sua voce e non la sua traduzione italiana.
Arundhati costruisce le sue frasi con le parole che sono pure poesie, piene di emozioni e di immagini struggenti. Quando lei parla, sembra che riesce a parlare in questo linguaggio poetico senza sforzo, e sembra incapace di parlare come fa la gente normale.
Poi quando è iniziata la sessione, per fortuna c'era qualche problema con l'audio della traduzione e alla fine hanno deciso di portare due traduttrici sul palco per tradurre Arundhati e John Berger dal vivo. Così ho potuto sentire la voce di Arundhati e poi la sua traduzione.
Per questo mi sentivo un po' in colpa - forse il mio intenso desiderio di sentire la voce di Arundhati aveva fatto guastare l'impianto di traduzione a Ferrara?
Comunque, mentre guardavo questo incontro con Arundhati Roy, sentivo un senso di frustrazione perché avevano mutilato la normale eloquenza di Arundhati. Lei costruisce i suoi discorsi in maniera molto complessa e articolata, un muretto qui, una colonna là, affinché vi è un grande palazzo che presenta diverse sffaccettature del suo argomento. Invece il formato della sessione con le domande e le risposte, e le esigenze di traduzione, richiedevano frequenti interruzioni. Così lei era costretta a presentare i suoi argomenti in piccole dosi, non sempre ben collegati tra di loro e senza mai arrivare alla costruzione del argomento completo.
Ho sperimentato personalmente tante volte le difficoltà di tradurre dal vivo senza poter prendere gli appunti e non in simultanea, per cui posso capire le fatica della persona che traduceva Arundhati. Allo stesso momento mi dispiaceva che non sempre la traduzione rispecchiava quello che Arundhati aveva detto.
In particolare mi aveva irritato la battuta di Marino Sinibaldi sul 2 ottobre e sulla celebrazione dell'anniversario di Mahatma Gandhi in India. Non so cosa aveva risposto Arundhati alla domanda di Sinibaldi, "se il giorno si faceva festa in India?" e in quali termini la traduttrice l'aveva posta a Arundhati, ma Sinibaldi aveva concluso che oramai gli indiani avevano dimenticato Gandhi mentre Sinibaldi continuava a celebrare la giornata per ricordarlo. Sicuramente in India odierna, l'anniversario di Gandhi è un'occasione rituale per i politici per farsi vedere alla sua tomba e per la solita retorica verso "padre della nazione", ma per questo dire che India ha dimenticato Mahatma, è assurdo.
Le mie perplessità
Mentre c'era il piacere di ascoltare Arundhati, non sempre riuscivo a capire come lei poteva sembrare così convinta e così "senza dubbi" nelle sue tesi! Ma davvero lei non ha dubbi dentro di sè, non riesco a crederlo.
Per esempio il suo discorso sul "lightness of the ecological footprint of Kamala, the maoist fighter" (la leggerezza delle orme ecologiche di Kamala, la rivoluzionaria maoista) e la sua ironia sullo stile di vita "gandhiano dei maoisti", non nel senso della non violenza ma nel senso di vivere con poco senza distruggere l'ambiente, mi ha creato perplessità.
Se penso alle persone povere nei villaggi indiani, sono quasi sempre tutte con "le orme ecologiche leggere" come Kamala. Vivere con mezzi semplici e basilari, riciclare tutto, salvaguardare la natura, questo è normale per le persone povere che crescono negli ambienti rurali in stretto contatto con la natura. E' naturale in vaste parti dell'Asia, come ci ricorda Federico Rampin nel suo libro "Slow Economy" quando parla del "consumo frugale". Cosa c'è di sorprendente se i ribelli maoisti vivono con poco? Penso che se andiamo a guardare come vivono i poliziotti che lottano contro i maoisti, troveremo anche loro "vivono con poco", magari non così ridotto all'osso come i contadini dei villaggi ma con poco più.
Concordo con Arundhati riguardo le enormi lotte che i gruppi indigeni e i poveri contadini devono affrontare contro quelli che vogliono sfruttare le risorse naturali dell'India, nell'indifferenza della sua classe media, sopratutto delle persone che vivono nelle città. La maggior parte della classe media indiana, vede la resistenza contro questi cambiamenti come un "ostacolo allo sviluppo e alla modernizzazione del paese", un po' come molti italiani pensano alle proteste di chi si oppone alla costruzione del tunnel per l'alta velocità.
Ma non concordo quando lei giustifica la violenza dei maoisti "perché non hanno un audience". La lotta armata per cambiare il sistema di governo del paese ispirata dalla rivoluzione culturale di Mao in Cina, è iniziata verso la fine degli anni settanta dello scorso secolo. Ma l'India di oggi, nei distretti e nei villaggi, ha scoperto i telefonini e i blog, e anche quando non vi sono le telecamere, i filmati arrivano su Youtube. I maoisti che controllano migliaia di kilometri di territorio tra gli stati di Madhya Pradesh, Chattisgarh, Jharkhand e Orissa, e lottano contro la polizia con bombe e armi di guerra, non hanno i mezzi come telefonini e i blog, non sembra credibile. E' più probabile che disdegnano i mezzi tecnologici "capitalisti" come strumenti del diavolo che possono corrompere i loro soldati. La polizia è violenta, ma anche i maoisti lo sono e presentarne un'immagine del romantico rivoluzionario, non lo trovo giusto.
Oltre ai maoisti, vi sono molti altri gruppi che alzano la voce contro quello che succede nelle foreste indiane. Qualche volta hanno successo e altre volte no. Personalmente, io non concordo con la lotta violenta. India continua ad essere una società con fortissime disugaglianze, ma che la via per appianare le disugaglianze passi per violenza mi sembra sbagliato perché penso che alla fine violenza creerà altre società altrettanto ingiuste.
Arundhati aveva criticato quelli che si esprimono contro la violenza dei maosti perché "sono spettatori e parlano dalle comodità della loro casa". Penso che dire "se uno non partecipa alla lotta, sei solo uno spettatore e non hai diritto di esprimere il tuo parere" è altrettanto fascista quanto i fascismi che elencava Arundhati.
Ho trovato strano anche il suo paragone tra i poliziotti indiani e i soldati americani in Iraq. Ho visitato un campo della polizia una volta e posso concordare con Arundhati che hanno un enorme potere nei confronti dei poveri dei villaggi, che stuprano le donne, che sono dei tiranni e sicuramente loro non soffrono di fame e di miseria. Ma penso che nonostante questo sono altri poveri disgraziati. Vivono in condizioni disumane anche loro - tende affollate e misere, vecchie attrezzature, un salario da miseria, senza servizi igienici e senza acqua potabile. Se alcuni giovani scelgono i maoisti, altri scelgono la polizia, entrambi per sopravvivere. Non penso che un soldato americano accetterà di vivere in quelle condizioni.
Non ho dubbi che la presenza militare con delle leggi bavaglio sia non accettabile da nessuna parte, ma ho molte perplessità sulle persone che "lottano per indipendenza" anche dal altro lato. Se alcuni gruppi, quasi esclusivamente maschili, che credono nelle ortodossie religiose, che controllano la popolazione con ferocia e paura, che chiedono l'indipendenza nel nome di instaurare regimi "in regola con quanto dice la nostra religione" - quando queste persone chiedono la "libertà", come dobbiamo comportarci? Arundhati non sembra avere dei dubbi, ma io li ho.
Il governo di congresso sotto la guida di Sonia Gandhi ha sicuramente molti difetti ma presentarla come un governo monolitico che vuole strangolare la democrazia in India mi è sembrata un'esagerazione. Il governo, bersagliato da continui scandali sulla corruzione, sembra barcollare da una crisi all'altra. Il digiuno di Anna Hazare e di altri suoi colleghi di qualche settimana fa, il ruolo giocato da partiti dell'opposizione e dai media, si concilia poco con il quadro che dipingeva Arundhati del governo repressivo.
Ho trovato problematico, anche il discorso di Arundhati su quante volte le forze armate indiane sono intervenute dopo l'indipendenza del paese, e gli esempi di Manipur e Hyderabad. Lei parlava dei diversi regni autonomi e la loro integrazione nell'India dopo l'indipendenza dagli inglesi. Ovviamente se guardiamo la costruzione di un paese sotto la lente dei nazionalismi, la possiamo trovare sbagliato. Ma costringere i vari regni a entrare nella repubblica era quello che aveva fatto Garibaldi per l'unità d'Italia, era sbagliato? La lotta dei bolognesi contro il regime pontificio era sbagliato? Possiamo giustificare la libertà della padania perché il partito di Bossi lo chiede?
Come si può vedere, il discorso di Arundhati mi ha lasciato con qualche perplessità. In parte, penso che queste perplessità sono dovute al formato del programma - se lei aveva più tempo per spiegarsi, forse si sarebbe espressa diversamente.
In parte, penso che le mie perplessità sono perché pensiamo diversamente. L'ammiro, mi piace ascoltarla parlare, e mi piace leggerla, ma qualche volta non condivido a pieno i suoi ragionamenti.
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Le foto di Arundhati usate in questo articolo, le avevo scattate al festival di Internazionale a Ferrara nel 2007.
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Volevo vedere l'incontro con Arundhati, ma volevo sentire la sua voce e non la sua traduzione italiana.
Arundhati costruisce le sue frasi con le parole che sono pure poesie, piene di emozioni e di immagini struggenti. Quando lei parla, sembra che riesce a parlare in questo linguaggio poetico senza sforzo, e sembra incapace di parlare come fa la gente normale.
Poi quando è iniziata la sessione, per fortuna c'era qualche problema con l'audio della traduzione e alla fine hanno deciso di portare due traduttrici sul palco per tradurre Arundhati e John Berger dal vivo. Così ho potuto sentire la voce di Arundhati e poi la sua traduzione.
Per questo mi sentivo un po' in colpa - forse il mio intenso desiderio di sentire la voce di Arundhati aveva fatto guastare l'impianto di traduzione a Ferrara?
Comunque, mentre guardavo questo incontro con Arundhati Roy, sentivo un senso di frustrazione perché avevano mutilato la normale eloquenza di Arundhati. Lei costruisce i suoi discorsi in maniera molto complessa e articolata, un muretto qui, una colonna là, affinché vi è un grande palazzo che presenta diverse sffaccettature del suo argomento. Invece il formato della sessione con le domande e le risposte, e le esigenze di traduzione, richiedevano frequenti interruzioni. Così lei era costretta a presentare i suoi argomenti in piccole dosi, non sempre ben collegati tra di loro e senza mai arrivare alla costruzione del argomento completo.
Ho sperimentato personalmente tante volte le difficoltà di tradurre dal vivo senza poter prendere gli appunti e non in simultanea, per cui posso capire le fatica della persona che traduceva Arundhati. Allo stesso momento mi dispiaceva che non sempre la traduzione rispecchiava quello che Arundhati aveva detto.
In particolare mi aveva irritato la battuta di Marino Sinibaldi sul 2 ottobre e sulla celebrazione dell'anniversario di Mahatma Gandhi in India. Non so cosa aveva risposto Arundhati alla domanda di Sinibaldi, "se il giorno si faceva festa in India?" e in quali termini la traduttrice l'aveva posta a Arundhati, ma Sinibaldi aveva concluso che oramai gli indiani avevano dimenticato Gandhi mentre Sinibaldi continuava a celebrare la giornata per ricordarlo. Sicuramente in India odierna, l'anniversario di Gandhi è un'occasione rituale per i politici per farsi vedere alla sua tomba e per la solita retorica verso "padre della nazione", ma per questo dire che India ha dimenticato Mahatma, è assurdo.
Le mie perplessità
Mentre c'era il piacere di ascoltare Arundhati, non sempre riuscivo a capire come lei poteva sembrare così convinta e così "senza dubbi" nelle sue tesi! Ma davvero lei non ha dubbi dentro di sè, non riesco a crederlo.
Per esempio il suo discorso sul "lightness of the ecological footprint of Kamala, the maoist fighter" (la leggerezza delle orme ecologiche di Kamala, la rivoluzionaria maoista) e la sua ironia sullo stile di vita "gandhiano dei maoisti", non nel senso della non violenza ma nel senso di vivere con poco senza distruggere l'ambiente, mi ha creato perplessità.
Se penso alle persone povere nei villaggi indiani, sono quasi sempre tutte con "le orme ecologiche leggere" come Kamala. Vivere con mezzi semplici e basilari, riciclare tutto, salvaguardare la natura, questo è normale per le persone povere che crescono negli ambienti rurali in stretto contatto con la natura. E' naturale in vaste parti dell'Asia, come ci ricorda Federico Rampin nel suo libro "Slow Economy" quando parla del "consumo frugale". Cosa c'è di sorprendente se i ribelli maoisti vivono con poco? Penso che se andiamo a guardare come vivono i poliziotti che lottano contro i maoisti, troveremo anche loro "vivono con poco", magari non così ridotto all'osso come i contadini dei villaggi ma con poco più.
Concordo con Arundhati riguardo le enormi lotte che i gruppi indigeni e i poveri contadini devono affrontare contro quelli che vogliono sfruttare le risorse naturali dell'India, nell'indifferenza della sua classe media, sopratutto delle persone che vivono nelle città. La maggior parte della classe media indiana, vede la resistenza contro questi cambiamenti come un "ostacolo allo sviluppo e alla modernizzazione del paese", un po' come molti italiani pensano alle proteste di chi si oppone alla costruzione del tunnel per l'alta velocità.
Ma non concordo quando lei giustifica la violenza dei maoisti "perché non hanno un audience". La lotta armata per cambiare il sistema di governo del paese ispirata dalla rivoluzione culturale di Mao in Cina, è iniziata verso la fine degli anni settanta dello scorso secolo. Ma l'India di oggi, nei distretti e nei villaggi, ha scoperto i telefonini e i blog, e anche quando non vi sono le telecamere, i filmati arrivano su Youtube. I maoisti che controllano migliaia di kilometri di territorio tra gli stati di Madhya Pradesh, Chattisgarh, Jharkhand e Orissa, e lottano contro la polizia con bombe e armi di guerra, non hanno i mezzi come telefonini e i blog, non sembra credibile. E' più probabile che disdegnano i mezzi tecnologici "capitalisti" come strumenti del diavolo che possono corrompere i loro soldati. La polizia è violenta, ma anche i maoisti lo sono e presentarne un'immagine del romantico rivoluzionario, non lo trovo giusto.
Oltre ai maoisti, vi sono molti altri gruppi che alzano la voce contro quello che succede nelle foreste indiane. Qualche volta hanno successo e altre volte no. Personalmente, io non concordo con la lotta violenta. India continua ad essere una società con fortissime disugaglianze, ma che la via per appianare le disugaglianze passi per violenza mi sembra sbagliato perché penso che alla fine violenza creerà altre società altrettanto ingiuste.
Arundhati aveva criticato quelli che si esprimono contro la violenza dei maosti perché "sono spettatori e parlano dalle comodità della loro casa". Penso che dire "se uno non partecipa alla lotta, sei solo uno spettatore e non hai diritto di esprimere il tuo parere" è altrettanto fascista quanto i fascismi che elencava Arundhati.
Ho trovato strano anche il suo paragone tra i poliziotti indiani e i soldati americani in Iraq. Ho visitato un campo della polizia una volta e posso concordare con Arundhati che hanno un enorme potere nei confronti dei poveri dei villaggi, che stuprano le donne, che sono dei tiranni e sicuramente loro non soffrono di fame e di miseria. Ma penso che nonostante questo sono altri poveri disgraziati. Vivono in condizioni disumane anche loro - tende affollate e misere, vecchie attrezzature, un salario da miseria, senza servizi igienici e senza acqua potabile. Se alcuni giovani scelgono i maoisti, altri scelgono la polizia, entrambi per sopravvivere. Non penso che un soldato americano accetterà di vivere in quelle condizioni.
Non ho dubbi che la presenza militare con delle leggi bavaglio sia non accettabile da nessuna parte, ma ho molte perplessità sulle persone che "lottano per indipendenza" anche dal altro lato. Se alcuni gruppi, quasi esclusivamente maschili, che credono nelle ortodossie religiose, che controllano la popolazione con ferocia e paura, che chiedono l'indipendenza nel nome di instaurare regimi "in regola con quanto dice la nostra religione" - quando queste persone chiedono la "libertà", come dobbiamo comportarci? Arundhati non sembra avere dei dubbi, ma io li ho.
Il governo di congresso sotto la guida di Sonia Gandhi ha sicuramente molti difetti ma presentarla come un governo monolitico che vuole strangolare la democrazia in India mi è sembrata un'esagerazione. Il governo, bersagliato da continui scandali sulla corruzione, sembra barcollare da una crisi all'altra. Il digiuno di Anna Hazare e di altri suoi colleghi di qualche settimana fa, il ruolo giocato da partiti dell'opposizione e dai media, si concilia poco con il quadro che dipingeva Arundhati del governo repressivo.
Ho trovato problematico, anche il discorso di Arundhati su quante volte le forze armate indiane sono intervenute dopo l'indipendenza del paese, e gli esempi di Manipur e Hyderabad. Lei parlava dei diversi regni autonomi e la loro integrazione nell'India dopo l'indipendenza dagli inglesi. Ovviamente se guardiamo la costruzione di un paese sotto la lente dei nazionalismi, la possiamo trovare sbagliato. Ma costringere i vari regni a entrare nella repubblica era quello che aveva fatto Garibaldi per l'unità d'Italia, era sbagliato? La lotta dei bolognesi contro il regime pontificio era sbagliato? Possiamo giustificare la libertà della padania perché il partito di Bossi lo chiede?
Come si può vedere, il discorso di Arundhati mi ha lasciato con qualche perplessità. In parte, penso che queste perplessità sono dovute al formato del programma - se lei aveva più tempo per spiegarsi, forse si sarebbe espressa diversamente.
In parte, penso che le mie perplessità sono perché pensiamo diversamente. L'ammiro, mi piace ascoltarla parlare, e mi piace leggerla, ma qualche volta non condivido a pieno i suoi ragionamenti.
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Le foto di Arundhati usate in questo articolo, le avevo scattate al festival di Internazionale a Ferrara nel 2007.
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1 commento:
Anche a me piace molto il suo periodare ma mi rendo conto che la traduzione a volte è difficile, sopratutto per coloro che hanno una logica "complessa ma chiara". Ho avvertito il tuo stesso disagio quando ho sentito Rushdie.
La violenza non può essere mai giustificata. Tantomeno quella maoista. Da una parte capisco quello che spinge le posizioni della Roy, ma dall'altra non posso ricordare quello che ho visto, con i miei occhi, fare ai maoisti in Nepal. Ambienti diversi, certo, ma la medesima ingiustificabile violenza. A volte le idee veicolano azioni senza senso.
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